G.B. Valentini
in “D’Ars Agency”, 35, Milano, giugno 1967
Nella presentazione per la prima mostra milanese di Giovan Battista Valentini (22 ottobre – 4 novembre 1960, al Salone Annunciata), Guido Ballo, verso la conclusione, riconosceva alla sua pittura una “idea del mondo: non torbida e ambigua ma, pur nei contrasti senza i quali non ce vita, chiara […] ottimistica”. Questa osservazione è valida tuttora, anzi, mi sembra che essa, dopo la personale ospitata al Salone Annunciata nelle ultime settimane di questo aprile, abbia acquistato una maggiore consistenza. Le larghe cadenze d’impasto informale e segnico di sette anni fa si sono schiarite spogliandosi d’ogni gravezza, passando dal tonale al timbrico pur mantenendo il guizzo, la sbavatura, il graffio dell’espressione immediata.
Questo contrasto tra struttura definita e segno libero – che faceva sì che in Valentini non apparisse in misura preponderante la volontà di circoscrivere un caos emotivo in una materia ancora palpitante proprio dell’informel, ma piuttosto il bisogno di ordinarlo dal di fuori, come natura da delimitare – l’artista sembra averlo risolto (in modo, mi sembra, convincente e autorevole) ricorrendo alla sua parallela esperienza di ceramista.
La ceramica è un’arte in cui l’ispirazione soggiace alla conoscenza tecnica e questa ai capricci (non sempre indirizzabili) del caos. In essa, splendore cromatico, sensibilità tattile ed evidenza volumetrica si combinano. Valentini, dirottando certi suoi risultati di ceramista nella sua pittura – seguendo così il cammino che più facilmente gli si apriva davanti – è venuto incontro a una corrente che preme parecchio nell’arte d’oggi; una corrente che tende a fare del quadro una specie di scultura, non la cassetta riempita di oggetti, dei neodadaisti e popartisti, ma una superficie, su cui dipingere, sagomata: come nelle “shaped canvas” di pittori inglesi e americani. Nelle grandi forme in legno, rivestite di una preparazione gessosa, bianca, l’artista ha concentrato la sua tendenza alle strutture definite (strutture liberissime, difficilmente riconducibili ai solidi geometrici semplici che possiedono già un’autonomia plastica). Su questi volumi, in un commento a contrasto, si inserisce il dato pittorico: come zona colorata che invade la superficie senza tener conto degli angoli, come sottolineatura grafica leggera, nera, nervosa, o come sbavatura o zona d’oro (Valentini ha dovuto imparare l’arte del doratore) che richiama sia gli sfondi dei pittori su tavole tre e quattrocenteschi – il pittore è nato nelle Marche e ne conoscerà i pittori del Tre e del Quattrocento – sia le raffinatezze bizantineggianti del Liberty. Anche negli “attualissimi” accordi cromatici agrodolci, in viola, rosa, verde acido, giallo ocra non è difficile trovare precedenti regionali pittorici o semplicemente richiami paesaggistici. In ogni artista autentico si finisce sempre per scoprire radici che affondano in una realtà geografica e culturale ben precisa. Ciò attenua già di molto il dubbio – suscitato dai particolari forniti in questo scritto – che Valentini sia prima di tutto un artista aggiornato, che mette il suo buon gusto e la sua abilità al servizio di correnti di moda. L’evidenza monumentale dei suoi oggetti pittorici, il loro insolito svilupparsi, articolarsi e rifiutare i limiti di una cornice (si espandono quindi liberamente), la preziosità ponderata, civilissima dei colori dimostrano – per chi nutrisse ancora qualche dubbio in proposito – che si può fare opera d’avanguardia anche utilizzando modi e argomenti “nell’aria”, senza rotture apparenti e con la persuasione di un dono pittorico privo di istrionismi: reso saggio da una cultura posseduta in profondità.