Caro Bruno

In “Bruno Baratti pittore della ceramica”, antologica 1935-1980, catalogo della mostra, Palazzo Ducale, Pesaro, 18 luglio / 20 settembre 1981

sono arrivato in ritardo per vedere te e gli amici. L’esser qui da solo mi ha forse aiutato a sentire intensamente la tua statua di terracotta smaltata. Mi è dispiaciuto non poterti parlare e dirti che senza fervore e ansietà la tua statua si pone in questa collina. Partecipa dell’idea di credere che fuori di sé c’è la singolarità di un luogo: Il simbolo si stempera nel ritorno alla cosa e la cosa segna il dramma di un confine. Ho rivisto la quercia bella con alcuni colori già autunnali, la strada che da Candelara va a Ginestreto con le tavolette di Ebla sparse, la strada per lo sguardo, l’orecchio di marmo dell’amico scultore che attende.
Sebbene a mezzogiorno, il gesto del tuo Indra era illuminato da una luce modulata, un gesto teso come una profezia che indica il fiume sottostante. Mi ha condotto attraverso le zolle ancora fresche d’aratro fino al fiume. Ho visto la curva dove andavi con il carrettiere a prendere l’argilla — me lo dicevi che ci andavi sempre all’aurora perché ti piaceva la luce senz’ombra.
Quella singolare ora, il sentimento di andata e ritorno, gli oggetti di fango e di suono, la cavità con i meandri pieni di silenzio sono le tue immagini.
Mi fermo sempre sul molo di Soria, mi fermo soprattutto per guardare l’acqua del fiume che incontra quella del mare: l’acqua ocra-spenta. La somiglianza che le capanne dei pescatori, sebbene più colorate, hanno con quelle dei boscaioli, mi fa credere che questo luogo (chiamarlo casa?) sia il centro di un labirinto senza inquietudini: come dice l’amico filosofo, un luogo che convoca. Non è l’immaginazione a farmi vedere le tue maschere (personaggi mascherati) entrare e uscire da quelle capanne.
La maschera, quella dal becco giallo, intrattiene una conversazione sulla prospettiva dell’Alberti, con pesci, uccelli, bambole (saranno di carne, di legno, di sughero, di carta?).
Come te, anche Sandro, Tullio, Giancarlo e altri amici hanno cercato un ordine, una distanza che stabilisse se questo luogo appartenga a una regione o a un confine. In ogni caso è un paesaggio dove sicuramente non si èfermato nessun eroe, dove non si raccontano, attorno ai tavoli d’osteria, le storie di Derceto, ma dove una collina, scendendo verso II mare, scopre le pietre di tufo: sono le ossa che Deucalione sparse sulla terra.
Ho ancora quel bottone di madreperla scura che mi diede la tua maschera – quella con il vestito e il grande cappello azzurro – quando partii da Pesaro. I colori dl quella madreperla sono uguali a quelli usati dal ceramisti umbri. Portati dall’Oriente come le mille e una notte, sono i colori (anche Newton ritornò mago quando ne scrisse) degli strati dei veli.
Sono gli stessi che possono esprimere quei fenomeni di luce che si formano al tramonto con la caligine delle valli umbre. Questa è la consonanza che fa avere alle anse del Metauro e del Foglia, ai ritmi delle colline, alle forme, alla materia dei vasi e delle brocche uno stesso contenuto, la medesima coniugazione.
Che fa dire al poeta: “Dunque per me mantenga la memoria / lo svagato fiume / pur tra sassi ed anse / o nel tiepido letto delle secche”. E al filosofo: “Il principio dell’ansa di essere ilmedium dell’opera d’arte con il mondo, medium che è tuttavia perfettamente compreso nell’opera d’arte […]. Con l’ansa il mondo giunge al recipiente, con II becco II recipiente giunge al mondo”. All’amico, ricercare una linea che commenta con la geometria del fluido una parabola. Per te, sciogliere, non senza una complicità alchemica, l’antica gemma nascosta nella pietra, sullo smalto (quello fatto con stagno feccia e arena). I lunghi muri di periferia, gli echi delle ansie, delle meraviglie, dei progetti di una avanguardia ormai lontana (vicino c’è solo li violino di Chagall e uno sguardo che rimuove la paura), un sistema di simulacri ormai scoperti, un codice che accelera e dilata mi fanno credere di avere con te più che amicizia e gratitudine. C’è un rapporto uomo-ambiente, uomo-natura che è per noi contiguità.
Ed è questa che ml fa vedere all’orizzonte (dove abita anche il mito) il rituale delle tue Viae crucis e sulla spiaggia la presenza delle tue conchiglie. Che mi fa riconoscere attorno alla fontana (come nella metopa d’Orfeo) i ritmi dei tuoi fiori, il percorso dei tuoi uccelli. Questa contiguità mi fa decifrare il discorso della maschera dal becco giallo.
E’ proprio dalla collina, quella sopra Santa Veneranda, che si può scorgere la triangolazione con l’orizzonte del mare. All’interno del triangolo, con i lati come tangente, è stato tracciato il cerchio delle mura di Pesaro, con le quattro porte. L’interno, su quelle mura, è il tuo luogo. ll centro immerso nella fontana allontana il tuo lavoro dalla seduzione e il suo confine immobile appartiene solo come rischio alla poesia: non ti è permesso un cammino sopra le mura.
E’ inutile che ti dica che una zolla di terra può racchiudere il segreto dell’oracolo, che un solco del campo può contenere tutte le parole possibili, che nell’acqua del fiume sotto il ponte c’è l’ombelico della luna che ascolta la terra, che ancora l’argilla contiene alfabeti nascosti. Tu continui, dentro quel cerchio, a popolare le mura di paesaggi, di cieli, di animali, di altalene: di oggetti proiettati per un mondo trasparente. Io mi fermo in quella parte dove è dipinto il molo di Soria, con il coro delle maschere attorno alla fontana. Da quel coro un invito a non togliere la maschera dal becco giallo, perché essa non copre il volto del manichino di de Chirico, né ad aprire il sipario con la casa sulla collina, per trovare Les Promenades d’Euclide di Magritte.
Il gabbiano vola oltre l’acqua ocra-spenta, l’amico interrompe il dialogo con la geometria dell’aria, ma il tornante è costretto a interrogare continuamente l’asse che arriva al centro della terra dove abita l’uovo dell’origine.

WordPress Image Lightbox