“Parlami di tutte queste cose, se le conosci:
in qual via abiti la luce
e qual sia il luogo delle tenebre da poter
ricondurre l’una e le altre ai loro luoghi
e conoscere i sentieri della loro dimora.”
(Giobbe 38, 19-21)
Il rapporto con la natura… I Presocratici avevano un concetto di staticità, d’immobilità: non si spiegavano come le cose divenissero, ma sentivano la necessità di spiegare le cose che divenivano, che “c’erano dietro”.[1]
Empedocle… non nel senso della magia… di questa magia del fuoco, ma del fuoco che appartiene a questa magia…
Il rapporto con la natura… Leopardi parla della luna, poi parla della natura… insomma è dio[2]…
Tempo fa, nel ’58 trovo un primo saggio sui Presocratici e Socrate, poi leggendo sono arrivato anche a Platone. Però, che cosa c’è nel Timeo, nel Fedone, c’è tutta la geometria, c’è già un universo.
Invece nei Presocratici l’universo è ancora la natura, ossia non è la lingua che racconta ciò che ha saputo. Non è lingua che sa in quanto ha una struttura che può ricevere, ma un rapporto naturalistico (uomo – natura); è l’essenza, il fuoco che è il principio.
Quella cosa sui principi[3]… ciò che accomuna, che slega come la scienza di oggi[4].
Fatto straordinario dei Presocratici è proprio di mettere in ordine la propria stanza, giorno per giorno[5]; chi con i quattro principi, chi riportando tutti ai numeri. Insomma con un concetto di ordine fanno propria questa operazione mentale.
Però il primo che ha fatto ordine nel cosmo, come regola sistematica, è quello che ha definito il caos (in fondo l’ordine viene con Platone… l’ordine è la parola), con Policleto c’è stata la volontà di mettere ordine, mentre Empedocle fa parte di un’arcaicità che definisce i quattro elementi; terra, acqua, fuoco e aria mentre si disgregano e si aggregano: amore e odio, il turbine[6]…
La materia è un fatto di trasformazione, non mi piace quello che posso fare, ma quello che non posso fare con la materia, quello che nasconde… sono più legato ad essa da un punto di vista occidentale.
Hai la materia: un campo, che non ti permette di fare certe cose, poi le fai lo stesso, quindi hai un rapporto di conoscenza.
Per me l’arte è conoscenza non presenza.
Io parto dalla materia (non arrivo)… ma uso quelle più povere, fondamentalmente le più stupide[7].
Mi stupiscono i vasai giapponesi, ma non sono bravo come loro. La bravura della materia… o ce n’è troppa o ce n’è poca, e allora quando ci sei in mezzo, o ci sei troppo poco o non ci sei abbastanza.
Il punto di equilibrio è la magia, perché devi legare delle contraddizioni, delle dicotomie, delle cose che non puoi mettere insieme?
Quando fai una forma e la metti dentro al forno, hai a che fare con un rapporto di sublimazione, non sei libero di scegliere quello che vuoi, ma sei costretto a rispondere… è una specie di palla al piede che hai o meno, non puoi farci niente.
Che poi nel forno non puoi mettere le mani è una cosa reale, per cui la magia non sta certo nel fatto che usi il fuoco, ma piuttosto che ti affidi ad esso.
La terra deve essere cotta nel fuoco per forza[8], e quando cuoce c’è la magia delle mani… la magia è ciò che sta dietro alla mano, si lascia andare con essa.
Voglio essere padrone delle mie mani, nella mia testa; insomma il discorso che operi con le mani non col fuoco, le mani ti portano in fondo, invece la testa non so dove mi porta.
Ciò che non conosco (inteso nella maniera indiana) è che mi viene una specie di febbre, le mie mani vanno da sole… se non mi affido a ciò che non so, non ho più la magia… così devo mettere insieme quello che so e quello che non so… quella è la magia.
Ché il rapporto con la materia è alchemico, è puramente mentale, non è mai fisico.
Giorni fa ho visto sul giornale un articolo sul lavoro di un amico artista…ma l’opera mica la fa lui… a me non interessa se è bella o brutta, ma non la fa lui…
Il prodotto finale è un’altra cosa proprio nel senso rinascimentale, tanta arte è il proseguo storico del rapporto dell’uomo del Rinascimento… l’artista non è più l’artigiano, ma quello che dà l’idea… non più il tecnico, l’artefice, ma il demiurgo di Platone.
Anche i numeri sono materia[9] se li usi per conoscere il mondo oppure per spiegarlo…
Questa cosa qui non è tanto magica quanto rituale, diventa una religione, una mistica, che è contraria al rapporto di conoscenza.
Devo fare in modo di non andare verso le cose con delle immagini, ossia devo isolare questa distanza.
Le nostre ossessioni, le nostre immagini, per avere un rapporto reale con degli oggetti, trovano questo litorale che rende trasparenti i fenomeni… e questa è la parte più filosofica… il rapporto con gli oggetti è stabilito da una cultura…
Io questo rapporto non ce l’ho.
C’è una bellissima parola che individua bene cosa sono gli oggetti: l’oggetto è una cosa che puoi consegnare… con segno… se non hai il tuo segno non puoi nemmeno… insomma tu ti doni con un segno[10].
A ogni artista è dato per definitivo un segno.
Ci sono dei linguaggi paralleli a quelli di uso normale così come dei segni che precedono la parola o che ne sopravanzano la presa.
Nella terra non cerco come la posso segnare o le immagini che la sua plasticità mi offre, né i suoi colori che evocano calore, ma cerco quei segni che possono uscire da lei, e che mi è possibile carpire[11].
La terra quando nasce io la imito, quando faccio un segno sul muro, non è fatto da qui a là, ma come se fosse dietro,
Preferisco quelle immagini che solo nella memoria me la ricordano, una memoria che mi dice quanto di più drammatico ci sia in quel distacco… quindi il problema non è quello dell’archetipo, ma quello della vita (o delle immagini) in quanto nascita.
Il mio lavoro è sempre stato un rimbalzo continuo fra la pittura e la ceramica… si potrebbe dire fra l’apparenza e la certezza.
Ora ho la forza di fare “un altro”, proprio un’alterità dell’oggetto: quando faccio un vaso ci sarà pure un momento in cui questo vaso nasce oppure trapassa, insomma un momento che ancora non è vaso.
Quando ho pensato alla deriva[12], avevo in mente la Via Crucis, però mi rompe le scatole che una Via Crucis venga immediatamente percepita come un soggetto sacro, come un rito, nel suo rapporto ebraico.
Una volta Fossati ha detto una cosa molto bella, che devo quasi partecipare ad una mitologia degli oggetti (nel rapporto in cui per mito s’intende ciò che sta dietro all’orizzonte)… non Marylin Monroe, non questi miti allegorici; non i miti che hanno una radice negli archetipi simbolici.
Il mito è il ricorso che fa l’uomo alla fantasia ed è il modo più primitivo di organizzare la propria stanza.
La ricchezza di linguaggio espressa nel mito è proprio dovuta all’uso della fantasia; il rimando al dato reale è proprio dovuto alla concisione con cui si da la metafora.
Sono tre anni che ho comprato il Mulino di Amleto[13]; un libro bellissimo perché parla di un mito che non è greco, non è ebreo (in senso cristiano), ne puramente danese (ossia nordico), ma è l’unico mito che appartiene a tutto il mondo.
Allora vedi la stessa cosa rifatta da tutti i popoli, nel tempo… capisci sono queste le grandi intuizioni… vedere un mito come un pensiero.
Quando fai un albero, fai un centro, cioè hai già l’archetipo.
Ma credo di non essere un vigliacco se preferisco stare in una soglia dove non esiste il centro né il margine e la parabola col suo punto all’infinito, è lontana.
Tra il finito e l’infinito è il fatto della materia che si fa e si disfa… nel momento in cui parla vuol dire che hai fatto un nodo al silenzio[14].
Quando il silenzio ti ha già catturato, ti ha già preso… insomma sei fottuto… io non sono per l’urlo per i gesti, anzi sono cose che odio profondamente, narcisiste… questi edonismi. Insomma quello che mi interessa è la memoria dell’urlo. Celine dice che la musica è la memoria del grido.
La terra è la memoria del primo segno.
Severini ha scritto un libro sull’immobilità che è contro l’arte (l’arte è una cosa sul divenire).
Penso al primo grido nella memoria di un bambino appena nato, è un momento poetico, è un rapporto metafisico… insomma il grido della nascita non è il grido della morte.
Sono in polemica con quelle persone che dicono che Arturo Martini ha fatto della ceramica… io dico che ha fatto della terracotta.
Il fatto è che ci sono delle materie più adatte ad una personalità.
Martini usa la materia come vuole, le sue terrecotte mi piacciono molto di più dei suoi marmi.
Si interessava di più alle figure rispetto a Leoncillo che era più vicino alla materia (ceramica).
Per questa analogia che lui trova… l’artista[15] come il bestione di Vico… va avanti e parla e ragiona per immagini e procede per cose molto elementari… immagini elementari.
In Martini c’è questa irrequietezza terribile e questo chiedersi, questo essere contemporaneamente dentro senza strategie (che poi faccia l’etrusco o il duecentesco è contingente al suo lavoro).
È molto importante ciò che non si vede rispetto a ciò che si vede (mentre in Fontana c’è questo fatto dell’ignoto).
L’ignoto è sempre l’ignoto, anche se torni indietro per esempio la tradizione del ‘400, è una specie di realismo, è un intimo metafisico, non magico e anti idealista.
Comunque, sia in Fontana che in Arturo Martini, c’è un rapporto che oggi non abbiamo, oppure se lo abbiamo, dobbiamo affrontarlo con quel senso.
Fontana ha lasciato andare la terra per intuizione, non credo che questo sia il suo rapporto.
Il contenuto di Lucio non è questa freschezza che ha, ma un rapporto metafisico… dell’Occidente, dell’altro, del dopo, del foro; ecco un rapporto spaziale, non certo di un altro genere.
Io ero molto amico suo (proprio me l’ha detto negli ultimi anni, che stava bene con me, perché non gli parlavo del lavoro), non gli ho mai chiesto niente; eravamo proprio completamente differenti. Abbiamo lavorato insieme e basta; poi mi ha anche comprato dei lavori… aiutava molto i giovani.
Andavo a trovarlo, quando stavo a Milano, tutti quanti sapevano che ero molto amico suo, e mi chiedevano di essere accompagnati da lui.
La lezione di Fontana prima di tutto è morale più che segnica.
Non poteva sentir parlare di Henry Moore, di Marino Marini… però aveva ragione.
Lui diceva: “Beh… insomma… io sono cose che non potrei fare, nel senso di un rapporto diretto con il proprio lavoro”.
Lottava contro gli scultori del talento, cioè gli scultori della soggettività tipo Marino Marini.
Fontana aveva un rapporto con la materia di grande libertà, con semplicità, andando oltre questo ignoto, questo “buco”, faceva vedere attraverso uno spiraglio (poi faceva anche altre cose… abbiamo fatto insieme un cubo di neon a Pesaro).
Melotti è molto più ceramista, in sé conosce molto di più la materia di Fontana[16].
Per Lucio, la terra, era forse la migliore di tante altre da violare, da capovolgere, da allontanare come l’artista del ‘400.
Per altri che vogliono pensare la terra… la terra è simbolica, è la terribile grande madre che divora i propri segni, è sempre presente nelle angosce perché è l’indifferenza (la morte è indifferenza).
La mia scommessa è quella dell’artigianato… è una strada piuttosto che un’altra… non è che sia capace di farlo, sono due cose differenti… entrare nell’arte popolare è un conto, essere popolare è un’altra cosa.
Le avanguardie non m’interessavano perché erano destinate proprio alla morte fisica.
Rappresentano però un punto di validità nella storia sono questa cosa di apertura, ma non l’apertura al discorso, l’apertura al senso.
Tante cose dell’avanguardia sono state usate male perché quando inizi qualcosa, non è come poi la fai, ma la prima idea, insomma… un po’, come gli schizzi sono, un’apertura al senso.
Per quello che riguarda il rapporto del naturalismo rispetto alle avanguardie, all’astrattismo e alla figurazione si potrebbe fare l’esempio del primo Carrà che non è naturalista, e del secondo che è un confine.
L’arte del naturalismo è anche soggettiva, è il soggettivismo portato all’estremo.
Era la poetica del segno… io negli anni ’60 ho detto che con queste cose non avevo più niente a che fare e mi sono messo a ristudiare.
Il simbolo ti chiama tutta una parte nascosta, così diventa magico quando unisce due cose lontane… una si vede, l’altra no.
Esso non deve vivere all’esterno, ma all’interno, lo devi vivere tu, allora diventa un archetipo, un mito della cosa che fai.
Altrimenti, cosa peggiore, il naturalismo diventa un fatto allegorico; infatti, ci sono persone che ti spiegano la cosa, ti dicono: io ho fatto questo, e poi questo… insomma fanno dell’allegoria.
La figura quando non diventa naturalistica è sempre simbolica.
In Jacopo della Quercia, queste figure hanno un grande peso umano, sono antinaturalistiche, sono proprio delle astrazioni[17].
Non è l’astrazione bizantina o gotica, a un certo punto dietro quella cosa lì c’è un mondo: dietro all’Adamo di Wiligelmo che ha la pancia, c’è finalmente un uomo che la pancia, dopo secoli in cui era piatto, vuoto.
La pancia non è naturalistica, ma diventa un fatto simbolico, una grande astrazione… non è decorazione.
Parlando dell’Oriente si parla di decorazione, e può diventare di tipo naturalistico, insomma proprio decorativa, un abbellimento.
Invece lì è proprio il pensiero, è la volontà di non fare l’immagine… l’icona è l’immagine, ma immagine della legge.
Sto facendo un omuncolo… ecco è venuto Claudio Olivieri[18] e mi ha chiarito bene: è una presenza che oltre ad essere pesante, è un’ombra fuori di noi.
Se uno vuole fare Narciso e poi ci mette il titolo “Narciso” … non è un fatto simbolico… invece se fai una cosa, pensi a Narciso, questo è il simbolo dell’io, lì non sfugge (per cui ha importanza quando l’io sparisce).
Rodin è proprio l’ultimo scultore di gesto di questa soggettività, lo ammiro moltissimo, ma non mi piace affatto. Solo alcuni suoi nudi dove in fondo c’è un principio di malattia.
La classicità è un rapporto fra il soggettivo e l’oggettivo; è il soggetto che attraversa un linguaggio delle forme, delle norme.
L’arte gotica è un’arte che ha ripreso la classicità non è più l’arte astratta.
Il romanico, il ‘400 della Quercia, è un momento particolare per la scultura, insomma sono momenti in cui c’è ancora tutto da dire e niente è stato detto e un momento dopo scaturisce una grande razionalità.
Il rapporto è sempre comunque costantemente antinaturale, perché quando l’uomo inizia a mettere davanti la natura, non c’è un rapporto naturale… gli animali non si mettono davanti alla natura dovendosela spiegare, perché loro sono la natura.
Nel romanico c’è anche la sintesi del cristianesimo che è anticlassico, con il concetto di creazione, che è anche il concetto di ciclo che c’è nello spazio.
Il mondo classico invece, non è creato né da dio né dagli uomini… è solo imprestato.
Quando questa sintesi è venuta fuori, c’è stato proprio un concetto di gravità e non di peso (Jacopo della Quercia).
Io negli anni ’60 ho avuto una crisi perché non sapevo che strada prendere, allora ho fatto questo volto con questa casa, poi anche dei disegni, dei bozzetti… poi dopo ho chiuso.
È il periodo in cui ho conosciuto Claudio Olivieri, Livio Marzot e mi sembrava giusto, non il ritorno, ma studiare un po’. Era l’esperienza del gruppo del Salone Annunciata, dei volti, delle strutture degli anni ’60.
La pittura la conosco, però cercavo sempre il rilievo e questo mi dava fastidio, adesso non succede più… è in scultura che cerco il piano.
Ho molta difficoltà plasticamente, e a scuola ero negato, invece per il disegno sono stato sempre abile.
Mainolfi, ogni tanto mi viene a trovare con amici suoi di Torino, che fanno degli esperimenti con le lave.
Ma la terracotta di Mainolfi è plastica, non è terra, poi lui ha un estro incredibile e un’abilità ad impastare, a tornire… insomma c’è un rapporto di lettura.
Nel ’61 volevo smettere di “fare” e mandai a Faenza i pezzi migliori (la ciotola bianca, etc.) proprio tutti gli oggetti.
Nel ’62, ’63 avevo messo un po’ di ordine e in dieci anni (nel ’62 avevo trent’anni), l’unica cosa buona fu fare una brocca, una ciotola una piccola scultura e dei disegni, basta!
Questo mi stupisce, perché, negli anni ’60 avevo progettato tutte le cose che faccio ora, questi temi del volto, della casa, del corpo. Ora li riesco a vivere più internamente, allora li avevo intuiti, ma erano scelte puramente individuali, con la figurazione di quel periodo, non avevo niente a che fare.
Non riesco a capire quello che sanno fin dove arrivano, quando ti danno una cosa ti danno anche la fine; sanno e devono sempre verificare.
Io invece, così, proprio d’ignoranza mia, non so cosa ho fatto (ne so forse il 30%). Intuisco ma non so neanche quello che il lavoro mi risponde (se vuoi prendere coscienza di quella realtà è pura illusione). Non vedo mai l’ora che venga un amico per chiedergli se funziona… e queste sono le angosce che uno si sceglie di avere.
Non disegno mai la realtà della cosa; molti disegni li faccio per studiare, alcuni sono queste forme che nascono dalla terra, poi è anche un problema di spazio, nel senso che quando vado su in cascina ho tanto spazio con tanta carta e allora faccio fino a quando non risolvo il problema… non lo risolvo dentro…
Quando vedo qualcuno a cui piace il disegno fatto bene, penso: devi fare un disegno e poi strapparlo, lo devi fare il meglio possibile se no che cosa strappi?
C’è una cosa da chiarire, l’arte moderna è un’arte completamente teorica, una cosa proprio mentale… non m’interessa pensare una cosa, ma come si pensa, è un ordine di riflessione proprio sul modo di pensare.
Non è che ci fosse la stagione informale e io mi sono messo a fare… ho fatto tanti disegni, tanti quadri ciò è venuto quasi di conseguenza, l’informale non è che un boom.
L’omuncolo non mi viene perché purtroppo so come è fatto il corpo umano, l’attaccatura della spalla… non posso dimenticarmelo, l’innocenza è un punto di arrivo, mica di partenza.
Fare oggi l’uomo significa fare proprio te.
Sono partito da un disegno di Sironi… ho visto la necessità di lavorare un attimo sull’ombra, e magari proprio sul rapporto che ha l’uomo con la sua ombra.
Per esempio, ho fatto il volto, ho fatto il manichino di De Chirico… ho riempito blocchi e blocchi di disegno per questo uomo. Deve essere vuoto, cioè proprio una cosa completamente inventata, non un uomo (tonto così, con la testa pesante che lavora le campagne, giù sulla terra che ha raggiunto la trasparenza della storia, non esiste più).
Adesso sto facendo queste terrecotte di tre grandi case: una è dove tu ci abiti (non è un’immagine, non la presumi da fuori), una invece che tu vedi. L’altra è una cosa spezzata dove ci sono degli oggetti, cioè il corpo della casa senza lo spazio.
La casa che cos’è?
Non altro che la plastica del concavo, invece tutta la plastica che è stata fatta fino adesso in scultura, non è altro che la convessità.
È importante quello che c’è dietro di me, perché negli anni ’60 facevo queste cose qua, poi dopo altri che mi stavano vicino le hanno fatte e io ne ho avuto una verifica… insomma… questa è la mia parte di presunzione.
In tutte le strutture antiche c’è la casa: dagli etruschi a quello, a quell’altro, cioè il problema della casa…
Io ho preso una casa di contadini e l’ho studiata in maniera geometrica: con i suoi rapporti, la luce, da dove entra, etc… è la madre, è la caverna di Platone… la sua è l’ombra della rappresentazione.
Per fare la casa occorre un certo tipo di coraggio… se la scultura è stata finora quel pieno che si è dilatato, il punto che si dilata nello spazio (questo qui è il Vico, no?!), il punto maligno che si apre e si estende con quella distensione che è una forza, il rapporto con la ceramica (intesa in maniera orientale) è il contrario, è questo spazio che… scivola fino a quando trova la propria energia.
L’ultimo rapporto che mi interessa molto adesso è questo lavoro con Nanni Cagnone sullo spazio.
Al Pac, l’unico momento sullo spazio era la colonna… lo spazio era ciò che c’era già prima che intervenissi… tu vieni, vai nello spazio, non lo crei.
Nanni Cagnone diceva che nella “Deriva” c’era un problema di spazio nel senso che non c’era proprio, era vuoto, era uno spazio naturalistico. La colonna, invece no, era un momento storico… quello che racconta è solo lo spazio perché riceve.
Per esempio, il capitello è ciò che non è architettura, il capitello dorico è formato su una sezione aurea in cui è costruita una parabola.
Costruire una parabola in sezione aurea è una speculazione incredibile… sono queste le cose per cui vado matto, cioè sono i fatti proprio linguistici, queste cose mi servono per lavorare, non per dire…
[1] Nanni come intelligenza primitiva che sta a questi filosofi, quindi senso della filosofia strettamente riferito alla vita reale con una presa diretta che è proprio di tipo artistico.
Nei nostri giorni si organizzano delle situazioni sulla scorta del reale, che si concretizzano in un prodotto tangibile (non è detto che il tangibile sia anche il concreto).
Punto in comune l’assenza di spiritualità.
[2] Pensare in sequenza al Leopardi che guarda la luna di Licini.
[3] “Fuoco, acqua, terra, aria, esistono per natura e per caso. Questi elementi poi, mossi a caso dalle rispettive tendenze, via via che per una certa affinità, si vennero incontrando e associando. (Caldo con freddo, molle con duro, e tutte le qualità naturali per necessità del caso si mescolarono con le opposte qualità).
L’arte, apparsa dopo, e che si fonda su questi stessi processi combinatori, opera di mortali, essa medesima mortale, ha più tardi realizzato certi giochi, che ben lontani dal possedere in sé la verità, sono piuttosto immagini, che hanno solo affinità con le arti ‘stesse’”.
Le Leggi – Platone.
[4] Questo fatto di vedere la natura e poi non vedi il paesaggio, d’interessarsi all’uomo ma poi non vedi il ritratto.
[5] Il lavoro di Valentini è di mettere in ordine la propria stanza mentale con un rimando diretto ai propri principi.
[6] Guardare ai Presocratici vuol dire azzerare tutto: perché freddo, perché caldo, perché luce; rimandare solo a elementi reali.
[7] Il termine materia povera che può sembrare improprio perché maggiormente riferito e consolidato dall’esperienza di un gruppo di artisti (recentemente presentati in una retrospettiva a Torino, Celant – Einaudi, 1985), è in effetti riprova di quanta parte di scelta e di propria presenza sopravviva nella velocità del dialogo.
Per riduzione mentale la polvere è integrata all’acqua: il fango è la materia povera e tecnologicamente stupida, non intelligente, per questo “luogo di partenza”; più poeticamente dimora di ogni cominciamento.
[8] I principi combinatori del molle con il duro, del freddo (inerte) con il caldo (attivo), delle qualità naturali espresse nelle leggi di Platone, stanno così particolarmente alla terra quasi come fuga in avanti del pensiero presocratico.
Forse il momento di maggiore tensione fisica nel lavoro di Nanni è questo diventare inconsapevole. Alla mollezza cedevole in cui si può lasciare la impronta, segue tutto il lungo momento in cui la materia si rapprende fino a consolidarsi con il fuoco, e proprio qui succede di non poter mettere più le mani.
Spesso una secchezza quasi nordica di “ritiro” è presente nei lavori che non sanno contrastare, mantenere la mollezza tosta in cui si manipola.
[9] La ricerca greca nella geometria è notevole proprio per l’importanza data allo sviluppo logico della materia e allo studio dei problemi teorici.
La sistemazione assiomatica isola pochi concetti e principi fondamentali che si possono considerare la chiave della fondatezza logica e della strutturazione di tutta la materia.
Cfr. Edwaer Stabler, Il pensiero matematico, Torino, Boringhieri 1978
[10] Come scrive R. Sanesi nel catalogo della Galleria Milano, Milano 1980: “costruisce la materia (la terra) e ne trae oggetti, già di per sé ‘segni’ oltre che oggetti, che portano il sigillo del suo intervento”.
[11] N.B. Acqua, terra, fuoco sono ancora talmente primitivi da contenere tutta una serie di germi e di cose che possono ancora venire fuori senza il bisogno di mostrarsi.
[12] Cfr. P.G. Castagnoli, catalogo Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 1984 (con testimonianze di U. Galimberti, F. Leonetti, G. Soro).
[13] Cfr. G. De Santillana, Il Mulino di Amleto – saggio sul mito e sulla struttura del tempo, a cura di A. Passi, Adelphi, 1983
[14] Come in una poesia di Margherita Guidacci, già traccia di lettura per contenuto nella pubblicazione della sua prima personale a Milano:
“Non le visioni sgomentano l’uomo – ma l’ombra che si muove
Sul fondo di solitari specchi o nelle gravi acque d’attesa.
Non il gesto o il grido – ma nel deserto del cuore
Le lente vibrazioni di un silenzio memorabile”.
G. Ballo, Opere di G. B. Valentini, Salone Annunciata, Milano, 1960.
[15] Quel quid di energia mentale (e non come in Martini “nervosa”) che passa nei suoi lavori, difficilmente farà in modo che ci sarà domani un “valentinismo”.
Non così è stato per Martini, proprio da un punto di vista mentale e non artigianale.
[16] Nanni non riesce a tenere in mano la ceramica, mentre Melotti ci specchia mille volte il suo volto, proprio perché la ceramica ha due tipi di colore: il colore come truccatura e il colore come astrazione. Nanni con la terra e gli ossidi metallici non dà nessun “effetto” (come nella pittura), ma dà il colore di posizione.
[17] Durante questo dialogo ci si riferisce espressamente alle opere del portale maggiore di S. Petronio (a Bologna), eseguito da Jacopo.
[18] Da un colloquio telefonico con C. Olivieri:
“Il rapporto con Nanni è sempre qualcosa di magico… quando ci parla è sempre un’evocazione di immagini. Abbiamo parlato di questo omuncolo e io sulle prime ero molto impacciato, non tanto perché poteva essere un richiamo al figurativo (per lui il discorso figurativo-astratto non esiste), ma proprio per questa sua evocazione del terrestre”.