Redatto per l’amico Adelio Maronati nel 1983
Ad Adelio, per un volto di pietra scolpita
“Un oro divorato, un vetro freddo:
questo soffio vicino è una nube.
Vuol durare. La pietra è assente. L’uomo amava.”
Vícente Aleixandre
Qui la pietra è sola, d’anima vasta e grigia
e tu, tu hai camminato senza che venga il giorno.”
Yves Bonnefoy
Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi
dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra.”
Jorge Luis Borges
Ora che le pietre sono contratte, che il ferro ha finito di scolpire l’altra superficie, che l’incantesimo ha avvolto spessori di luce, ti chiedo dov’è la pietra su cui si appoggia il gabbiano, perché in questi intervalli non crescono rovi né sì posano foglie e si sono smarriti lo scorpione e il melograno? Oltre a questo luogo dove il mito respira – giardino di pietra dedicato alla follia di Suibhne – hai anche sognato grandi querce, tormentati ulivi, inquiete viti, hai divorato orchidee, asciugato tini, baciato volti, accarezzato seni. Hai immaginato corridoi di penombre con fantasmi bianchi e immobili, cani neri, tremori di vergini tra le ansie dei fiori. Tua è la scelta di credere che nella pietra c’è il cuore di Adamo, rosso e terra, e che la spada d’oro non è chiusa nella notte.
Allora dove hai disperso lo specchio che ti legava a dio? Vicino scorre il fiume che ha accompagnato la tua infanzia – una complementarietà pensata?
È vero: alla pietra non si addice il colore. È lei che rivendica la solitudine, è a lei che appartiene l’attorno come alla terra l’inquietudine della superficie. I suoi segni sono la durezza, il ruvido, l’eterno. La pietra non parla di simboli: è sacra.
La scultura – io amo il romanico – la può tentare, ma è solo per impazienza, per non voler attendere – per l’uomo sarebbe l’eternità – che si decomponga come la foglia dell’alchimista per diventare terra. È un lavoro che dice solo di spazio: la posizione senza centro, le direzioni senza verso, le superfici senza colore, la materia che fissa la gravitazione, sono i suoi segni. Volumi e proporzioni, modulati come appartenessero a un rito passato, prospettano una linea invisibile. Ma la linea che la spada segna le è affine ed è la stessa che unisce il nulla al granello di sabbia, alla sfera di granito, all’infinità. Il tetraedro, l’esaedro, l’ottaedro, il dodecaedro, l’icosaedro sono incidenti della sua trasformazione. Un delicato udito non può distinguere il tempo di un bacio.
Dopo l’ansa di Brivio, nel vecchio mulino, c’è ancora l’antica pietra: trasferiscila altrove per farne, come hai fatto qui, luogo di luce. La sua presenza farà diventare il fiume un’immagine della memoria, la sua forma un cosmo illimitato, il suo foro un orecchio attento ai suoni di cose che i miti hanno rimosso. L’amuleto appeso al collo, simbolo di cielo e di terra, benché simile, nasconde invece con quel colore liscio, la certezza che in quel foro vuoto, tra cielo e terra, c’è un volto umano che guarda il mare: non è di pietra.
Mi torna presente, nel dialogo teso di queste pietre – dentro e fuori, pieno e vuoto – il racconto che mi facesti nell’osteria di via Magolfa: di Ullikummi, l’uomo di pietra, nato dal ventre di una montagna, che crebbe fino alla volta del cielo per distruggerla e fare cadere gli dei. Ancora il fiume trasporta la follia di Suibhne, il mare porta alla deriva imprese di eroi, le porte delle case parlano del ritorno del figliol prodigo. Dal cielo cadono solo pietre da fulmine, pietre nere, e non fu in sogno che Giacobbe ne eresse una verso l’alto: desiderio di separazione, di attesa, di comunione? In ogni caso desiderio di speranza. La linea che hai voluto sarà vista solo dall’uomo del Settimo Sigillo. È una presenza che porta lo sguardo al fiume, ora che il suo fluire, quando le prime nebbie di settembre intercalano le cose, conduce a una più completa risonanza con il paesaggio.
Immagini di intermittenza appaiono e si dissolvono senza eventi, solo un tessere continuo di sensazioni. La donna “dal volto di pietra scolpita… che venne dal mare” troverebbe in queste albe il suo silenzio.