Anche se stemperare

in “Estra”, quaderno quadrimestrale di cultura a cura di Ugo Carrega, n. V, ottobre-gennaio 1982

Anche se stemperare con parole una tensione-oggetto significa inquinare il possibile silenzio, è anche vero che, essendo la parola totalizzante, può evitare il malinteso che trasforma in simulacro la forma.
Il muro di piume e di cera dell’oracolo, con le domande e le risposte, è ormai sparito nella terra muta.
Ma preferisco ancora credere che ci siano parole che possono percorrere i confini delle contiguità, Parole- suono, Parole-aria, Parole-dimensioni, Parole che abitano tra la convessità e la concavità di un vaso, Parole che premono dietro un muro, Parole che attraversano una zolla di terra, Parole che reclamano il loro spazio nella tavoletta d’argilla….
Espongo qui delle frasi che hanno preceduto l’esposizione di alcuni miei lavori:

quattro elementi terra, acqua, aria, fuoco mi interessano ancora. Così come lo sguardo, la memoria, la previsione.
Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso una tela, bagnare di colore le cose. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile.
Forse è un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato. La creta, la tela, e la carta sono i supporti che uso.

(Galleria Arte Struktura, Milano  –  26/11/1975)

La paura del labirinto verticalizza il “processo” e il “graal” fa ascoltare la sua forma.
L’asse fisso del tornio ritualizza una nascita dove l’ombelico è senza memoria.
Il rito fa diventare culto la parola-segno e per contro la flessione diventa inflessione, opacità, codice dell’insonnia.
La spia non può richiamare lo stupore di Empedocle.
Il ritmo della terra è troppo lungo, l’ala del gabbiano si fa cenere-cristallo.
La materia nella memoria si fa memoria e diventa prensile solo allo sguardo, percorribile solo al concetto.
Nel loro possibile le cose possono vivere nei luoghi interdetti e fuori dei segni rassicuranti.

(III Simposio Internazionale, Bassano del Grappa  –  8/9/1978)

Per Alesso, …. Sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre, luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque.
Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codice, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni.
Sono visibili nello smarrimento, si negano alla linea retta.
Anche se il linguaggio non è attraversato, la cosa è rimasta implicita, il desiderio per essa ancora intero.
La fontana delle colline di Marostica non ha tolto la verginità ad alcuna fanciulla.
Giacobbe non può vedere la scala nel tuo giardino; sotto le sue pietre ci abita un popolo di larve.
Credo che ognuna di queste larve ci lascia alfabeti segreti da decifrare, e forse portando una pietra all’orecchio, potremmo rischiare di sentire la traccia del tuo rumore.
Seguendo ancora la terra il filosofo ci dice:
“Ciò in cui l’opera si ritrae ciò che, in questo ritirarsi, essa lascia emergere, la chiamiamo terra. Essa è la emergente-custodente.
La Terra è l’assidua-infaticabile-non-costretta. Su di essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo.
Esponendo un mondo, l’opera pone-qui la Terra. Il porre-qui è assunto nel significato rigoroso del Termine. L’opera porta e mantiene la Terra nell’aperto di un mondo.
L’opera lascia che la Terra sia una Terra.”
         (Heidegger)
Accetta questi lavori, sono progetti per dei desideri ancora possibili.

(Galerie Rota, Heilbronn  –  maggio 1979)

Ho scelto la materia come poetica e, soprattutto, identificandola con la terra;….come un partener che mi risponda con i segni suoi. Amo profondamente il dramma nascosto del seme-aria e ne cerco dei riflessi e delle corrispondenze. La penso infatti attraversata da una diagonale, percorsa da una doppia eco senza ridondanze, disidrata e bagnata simultaneamente senza rimandi degli strati, con tutti i tempi; quindi senza archeologia. Mi piace considerare la terra solo come luogo di una poesia, un luogo vuoto e perciò aperto al possibile dove l’unico rischio è quello dell’impronta. Il diamante che imprigiona la luce, quindi tutto l’esterno; la parete-calce che riflettendo la luce rinuncia alla propria forma; il crate che come spettacolo informa e il seme che nasconde ogni possibile rumore sono i politipo delle immagini che ho sulla materia.

(Pinacoteca e Musei Comunali, Macerata  –  12/12/1979)

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