Carlo Sini

La soglia
in “Riga n. 3 – Nanni Valentini”, a cura di Marco Belpoliti, Elio Grazioli, 1992

II problema è quello del limite, perché l’uomo è l’essere del confine. Heidegger ha scritto che l’uomo è il pastore dell’essere, e insieme la sentinella del nulla. Le due cose si equivalgono, perché dicono, paradossalmente, il medesimo. L’essere che l’uomo custodisce, perdendovi la vita, non è mai propriamente l’essere, ma sempre un semplice ente intramondano: qualcosa che è già oltre il confine, al di qua del nulla. Così non è mai l’essere che l’uomo pascola, ma un suo segno, una sua maschera, una sembianza. Ecco che allora, da questi simulacri dell’essere, l’uomo è rigettato indietro, al di là del confine, dove domina poi il nulla. In questa oscillazione, tra l’essere (che non è mai l’essere) e il nulla (che è poi lo stesso essere), l’uomo è preso nel limite ed è lui stesso oscillazione. Non può, in realtà, trattenersi sul limite, abitarlo, dandosi una misura stabile: l’uomo è sempre smisurato, squilibrato di qua e di là insieme, e proprio per ciò è anche l’animale più terribile, come dicevano i greci, sbilanciato tra la bestia e l’angelo.
Così parla la filosofia; ma la filosofia non dice altro, nel suo gergo, se non ciò che in ogni momento accade e ci accade. Noi continuamente passiamo la soglia, per il solo fatto che viviamo, respiriamo, facciamo in ogni istante ora questo e ora quello. Ogni azione, anche la più semplice, è un eccesso incomprensibile. ll piede, la mano, fatti di terra, la sopravanzano e la sottomettono, se ne fanno oggetti, come il suolo e il bastone. L’occhio, germinando dal dentro del mondo, lo respinge fuori di sé e ne fa un orizzonte. Eccesso di tutti gli eccessi, poi, la parola, che traduce ogni cosa nei suoi segni e fa di continuo accadere l’invisibile e l’inaudibile, ovvero l’inaudito: la “cosa”, la cosa “detta”, appunto, che da nessuna parte propriamente esiste, librata com’è tra essere e nulla, sempre in tensione tra il segno e il significato, il soffio e il respiro; proprio come l’uomo, l’animale che ha la parola e che è la parola.

Come può dunque l’uomo, l’essere degli eccessi, custodire la soglia, soffermarvisi e parlarne? A questo paradosso, che la filosofia può solo enunciare, alludendovi “in errore”, già per il fatto che dice “essere”, “nulla” e “soglia” e così li vanifica nell’universalità astratta del significato, a questo paradosso pone da sempre rimedio l’arte. Perché l’arte propriamente non dice (anche quando dice); essa fa apparire inapparente di ogni azione e di ogni vita: la soglia appunto, il limite ogni volta attraversato nella parabola che fa oscillare gli umani, nell’andata e nel ritorno di ogni azione, nel guadagno di ogni perdita e nella perdita di ogni guadagno in cui l’esistere trapassa, per arrestarsi infine là dove l’arte l’ha effigiato: simbolo dell’eterno e metafora del nulla.

Scrivo queste riflessioni, che almeno a me non paiono insignificanti ripensando all’arte di Nanni Valentini e tenendo sotto gli occhi le riproduzioni fotografiche delle sue opere più belle e famose.
Ma non vorrei che si credesse che io voglio semplicemente applicare e quasi sovraimporre le mie considerazioni generali sulla soglia, sull’arte e la filosofia all’opera plastica di Valentini; perché le cose stanno esattamente al contrario. E rievocando nella memoria le sue sculture, le sue teste e i suoi angeli, le sue spirali e le sue porte seminterrate nella materia che questi pensieri sul limite, sulla sua inapparenza esistenziale e sulla sua essenzialità estetica, si sono da soli presentati alla mente con una vivacità, necessità ed evidenza che non avrei da solo raggiunto.

Molte cose appropriate e profonde, acute e illuminanti, si sono scritte sull’arte di Nanni Valentini, molte cose nutrite di competenze e conoscenze che purtroppo non possiedo. Per partemia sarei pago di riuscire a chiarire meglio questo pensiero del limite e della soglia che la frequentazione dell’arte di Valentini mi ha suggerito e che è il segno essenziale del mio incontro con lui.
Nessuno scultore contemporaneo a me noto ha infatti frequentato con pari dedizione, maestria, prudente e quasi timorosa reverenza quello che ho chiamato qui il problema e il tema della soglia.
Valentini lavora consapevolmente al limite: là dove natura e cultura si fondono e trapassano insensibilmente l’una nell’altra. La sua ispirazione (l’ha detto lui stesso) nasce dalla materia, dalla hile primordiale e perenne della terra, del fuoco, della luce e del colore, e poi delle sue mani stesse, del suo corpo che scende “In carne e ossa” (come diceva Husserl) alle estreme radici per trarne alla luce il cuore incerto e ancora grondante di un significato possibile, appena trattenuto sulla soglia e sempre sul punto di riprecipitare nell’oscurità del suo interno originario, nel buio dell’immane silenzio del mondo, nell’ apeiron della potenza non ancora e non mai attuata.

Ciò che colpisce, nel lavoro di Valentini, è che egli non impone la forma; piuttosto, la lascia accadere, la accompagna con trepida e trattenuta sollecitudine nel suo farsi, nel suo varcare la soglia e rendersi evidente. Evidenza che è sempre in itinere, mai compiuta, mai totalmente liberata dalle scorie dell’origine, che ne segnano il fenomenico apparire come tracce tenaci di un cordone ombelicale con la materia che è sempre sul punto di recidersi e che tuttavia permane.
Arte della natura e arte nella natura, l’operare di Valentini è più simile a un alchemico cercare che non al mito ideologico dell’estetismo di un’arte che si pretende tutta compiuta e “risolta” nella forma. In questo senso l’arte di Valentini abbandona la volontà di potenza del progetto per consegnarsi, con acuto senso dei problemi della nostra contemporaneità afflitta dalla insensatezza della progettualità tecnologica, alla domanda. La forma non è mai pre-supposta, ma anzi è cercata, scrutata nelle sue minime premonizioni, resa essa stessa oggetto di domanda, poiché la ricerca non insegue solo la forma possibile, ma si introflette domandando sulla domanda stessa e anche su ciò che si tratterebbe di cercare: riflessione, e attenzione, di secondo grado. Letta in tal modo, l’arte di Valentini appare come una suggestiva metafora di uno dei pensieri più profondi del nostro secolo, pensiero che è insieme un’eco della modernità e delle radici greche di tutta la nostra cultura. Metafora, voglio dire, della epochè husserliana, della sospensione del giudizio, e metafora del dubbio cartesiano; e infine, se pensiamo alle origini, metafora dell’ironia socratica. Sospensione delle forme e delle teorie date, per riscoprirne genealogicamente (come avrebbe detto Nietzsche) l’evento; ritorno indietro al Grund, al fondamento, che tuttavia non è mai sostanza, ma travaglio dell’essere, parto sospeso tra mostruosità e bellezza, crocevia ed evocazione della “carne del mondo”, secondo la nota espressione di Merleau Ponty. Punto di taglio (per cui Valentini è stato giustamente avvicinato a Fontana) in cui lo stesso soggetto artistico sospende se stesso, per guardarsi nella sua stessa messa in opera, senza più favole, miti o superstizioni; per osservarsi e per accettarsi nel suo travaglio piuttosto che mascherarsi narcisisticamente nell’inganno dell’opera. Operazione socratica, appunto.

Così il lavoro di Valentini è stato l’esempio di un continuo, mai cessato “esercizio”, proprio nel senso in cui Husserl parlava appunto dell’epochè: non una teoria, ma un reiterato esercizio di sospensione; e proprio nel senso in cui Nietzsche guardava alla sua genealogia: un “esperimento”, con la verità e con la vita. L’arte di Valentini è una “pratica” (come a me piace dire) in esercizio. Non un semplice “metodo” (methodos), ma una “via” (odos): un esercizio di formazione e di iniziazione.
In questo modo, che sembra superficialmente casuale ed erratico, ma che nel profondo è del tutto necessario e rigoroso, egli ha frequentato la soglia, là dove l’arte (l’uomo) accade o può accadere. Così frequentandola, l’ha fatta apparire. Tutte le sue opere, si potrebbe dire, sono la rimemorazione archetipica di Orfeo, colto sul punto in cui, girandosi, compie l’atto sovrabbondante, eccessivo, proibito, e pure irrinunciabile e inevitabile, nel suo timore e tremore, così come nella sua impazienza dissacrante e violentante. Annunciazione dell’eventoimpossibile. Allora là, sulla soglia, nell’attimo del limen, Euridice (la Vergine) appare: fantasma di luce evanescente, proteso verso la forma e tuttavia ancora fasciato dalle tenebre e dal sonno del cuore della terra, proprio come l’immortalò in parole memorabili Rilke. Istante della vita eterna che già si eclisse per ritornare nel buio che l’ha prodotto. In una parola, arte: umano artificio e destino dell’essere.

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