in “Nanni Valentini”, catalogo della mostra, Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 19 gennaio / 20 febbraio 1984
Ho scelto la materia come poetica e, soprattutto, identificandola non certo come potrebbe farlo uno scultore o come un pittore: e tanto meno come la mia materia, ma come un partner che mi risponda con segni suoi. Comunque, in ceramica, non cerco il mito dell’orfano né le tragedie del tellurico. Amo profondamente il dramma nascosto del seme-aria e ne cerco dei riflessi e delle corrispondenze.
Il mio lavoro è sempre stato un rimbalzo continuo tra la pittura e la ceramica. Si potrebbe dire tra l’apparenza e la certezza o tra il visibile e il tattile.
Ma è proprio questa dicotomia che mi interessa percorrere: l’aspetto in cui l’immagine diventa la rappresentazione di uno iato, di una tangenza.
Il neonato, posato sulla terra, negli Abruzzi, non è solo un rito della Terra-Madre, ma il punto di questa tangenza, l’irrisolto, l’indefinito e, in quanto tale, può diventare il mito dell’inafferrabile, il luogo dove l’incongruenza, cercando la sua possibile omologia, crea dei feticci.
Mi sembra che questo sia uno specifico, un luogo di lavoro sulla materia, una riflessione sulla terra non più invischiata nelle triadi, ma con una sua possibile polarità e una sua possibile trasparenza.
La penso, infatti, attraversata da una diagonale, percorsa da una doppia eco senza ridondanze, disidratata e bagnata simultaneamente, senza rimandi degli strati, con tutti i tempi; quindi, senza archeologia.
Penso alla terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore Geremia, alla Terra-Madre che partorisce i figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio e a quella che imprigiona l’ombra delle farfalle.
Sono i suoi segni che fermano la mia attenzione. Non credo alla poesia-comunicazione. Mi piace considerare la terra solo come luogo di una poesia, un luogo vuoto e perciò aperto al possibile, dove l’unico rischio è quello dell’impronta.
Il diamante che imprigiona la luce, quindi tutto l’esterno; la parete-calce che riflettendo diffonde, invece, tutta la luce, rinunciando, quindi, alla propria forma; il cratere che accettandosi come spettacolo informa e il seme che nasconde ogni possibile rumore sono i poli-tipo delle immagini che ho sulla materia.
L’unica comunicazione che posso pensare è l’atto incestuoso della mano che accarezza la zolla e lo sguardo che percorre il solco.
Una cosa credo di sentire con certezza: che soggettivamente concepisco la materia come il luogo di tutte le trasformazioni; di tutte le similitudini.
Le forme sono le tracce, i segni tangibili di queste trasformazioni, e anche il luogo dove l’insonnia fa sì che non si creino simulacri e le impronte sono sicuramente delle necessità. Forse hanno ragione gli scienziati che parlandoci dei buchi neri ci dicono che ciò che vi è riflesso sono le scorie, le imperfezioni della materia, ancora abitata dall’uovo d’argento nato nel grembo dell’oscurità .
Nanni Valentini, 1979