Nanni Valentini: una materia per Pitagora
in Materia come realtà, catalogo della mostra, Pinacoteca e Musei Comunali, Macerata, dicembre 1979
Nanni Valentini è un personaggio, a suo modo, strano e interessante, la cui creatività anziché rifugiarsi in un empireo metaforico-simbolico preferisce un linguaggio denotativo per il quale giunge a una personale sistemazione filosofico-estetica del problema della comunicazione. La sua intenzione di produrre un manufatto impostato secondo una linea di purezza formale che prescinda da ogni eventuale concettualizzazione permette delle acute osservazioni, praticamente riguardanti l’oggettivazione dello spazio plastico. I suoi lavori si presentano all’osservatore esattamente per quello che sono, un incontro tra materia e intelligenza immaginativa che permette una cognizione emozionale delle informazioni emergenti, relative alla qualità, quantità, colore e forma dell’evento artistico, chiudendo in questo modo la circolarità di un discorso che risponde a criteri di coerenza intellettiva e a certi requisiti propri della razionalità.
Persino quando, nel 1956 e 1957, crea immagini dove la essenzialità del segno rivela quanto l’artista sia ancora psicologicamente legato a moduli figurativi peraltro non rappresentati è possibile constatare tale indirizzo speculativo. Il rapido consumo percettivo di quei disegni da parte dell’osservatore, tuttavia, non evidenzia sufficientemente le qualità nascoste nell’incisività di quel suo tracciare, ma si limita a sottolineare la intensità del sentimento. Il ritmo sciolto e fluido imposto dalla mano sembra svilupparsi progressivamente e condensarsi talvolta nello sforzo crescente di sintetizzare i valori che, dall’alternarsi e dal contrapporsi dei gruppi di segni, giungono a suggerire con accenti persuasivi una dimessa ma sostanziale poesia, che senza ricorrere ad artifici tecnici fonda la propria concretezza sull’icasticità delle linee e sulla spontaneità del porgerle.
Ricordo una tempera del 1957, esposta, mi pare, al premio Marche di quell’anno, che mi aveva colpito per la semplicità dell’impianto e specialmente per la complessità ctonia del suo linguaggio, reso autonomo grazie a un distacco chiaramente autoriflessivo dell’opera rispetto al suo archetipo ideologico. L’artista, infatti, vi inquadra una vicenda cromatica e formale bene individuabile, tradotta attraverso una nervosa dinamica della pennellata che si carica nella densità acuta dei contrasti di illogicità stilistiche, usate, per lo più in maniera analogica, in campo poetico. L’intensa ricerca di una comunicazione che senza ripetizioni combini il cuore e l’intelletto dell’autore con gli inusitati partners, rappresentati dal colore, dal supporto, dalla struttura oggettiva della composizione, valorizza i risultati dell’universale esperienza del naturale, rendendoli di per se stessi efficaci, perché ordinati secondo un autarchico panorama di forme.
I consensi riscossi al XVI Concorso Nazionale della Ceramica a Faenza, dove per l’occasione gli fu assegnato il premio “Giorgio Ugolini”, lo convince dell’opportunità di organizzare, al Palazzo Mosca di Pesaro, una propria personale di ceramiche e disegni che ottiene un vero successo di pubblico e di critica per la concretezza dei lavori, pervasi dalla umana consapevolezza di una quotidianità, sentita come un susseguirsi di eventi reali, poeticamente vissuti, evitando visioni romantiche, ostiche al suo temperamento e alla sua specifica preparazione culturale.
Ciotole e vasi, solidi e densi, oggetti usuali e umili, nati dalla creta plasmata e resa fertile di significati, grazie all’intelligenza fecondatrice degli smalti, finalmente liberi da complicità figurative, suggeriscono connotazioni che imprimono sul supporto non solo i segni del passaggio del tempo, ma anche quelli dell’immaginazione, filtrati dall’indelebile presenza della materia.
La terracotta, senza velature, si pone direttamente in uno spazio mentale diverso rispetto a quello dell’osservatore, rifiutando qualsiasi mimesi, evocando suggestioni che la trasparenza atmosferica rende mutevoli mediante un comune equilibratore: la luce. Persino i disegni si presentano liberi, quasi a riportare la adamantina serenità del gesto che dimensiona nello spazio dato il trascorrere dei pensieri. Se, però, si guarda all’insieme dei lavori esposti a Pesaro, filtrandoli attraverso gli echi multipli, insorgenti dalla memoria, nasce intorno a loro un’aura quasi magica, ricca di forza primigenia in grado di suscitare sentimenti segreti e il gusto di arrivare a una conoscenza tattile dei manufatti per lasciarne fluire le assonanze vitali e recondite.
Le connotazioni materiche dei vari lavori respirano spesso vigorose risonanze informali di un continuum, direttamente strappato a quel presente sul quale insiste una specifica dimensione terrena, predisposta, cercata e guidata attraverso una commistione dell’impasto plastico sapientemente elaborato fino ad addurre reazioni molto interessanti di pigmentazione e di forme, sempre attivate dalla validità di un’esperienza irripetibile. Vivono sparsi e come in sospensione entro il campo operativo segni misteriosi che offrono una situazione spaziale senza appiattimenti, capace di inventare una profondità dove può, perfino, nascondersi un’ombra di luce, ordinatrice di un ulteriore trapasso da materia ad altra materia, dalla terracotta a un ectoplasma indefinibile, di sapore ancestrale, disperante nella sua fragilità quasi umana. Sulle superfici trattate, i valori luministici divengono mobili occasioni dialettiche, ferme nello stupore della morte o stimolate da un principio vitale riconoscibile nell’oggetto come dimostrazione di una verità ontologica, ma non per questo più risolvente. La complementarietà tra astrazione e naturalismo finisce per concludersi nella realtà effettiva di uno stesso manufatto, pensato come coscienza non illusoria di una forma, a un tempo, seducente e utile.
Gli studi e le ricerche degli anni cinquanta, insomma, sembrano esaltare una non comune capacità sensitiva esplicitamente indirizzata ad afferrare gli umori impalpabili di una solitudine immaginosa, intensamente rievocativa. Attraverso un processo grafico condotto così da determinare la contrapposizione di ritmi paralleli a zone di incroci, dosate per dare un risalto prismatico a una prospettiva armonica, scaturisce lo sviluppo di automatismi geometrizzanti secondo piani più intellettuali che reali. L’oscillare continuo dal simmetrico all’asimmetrico è una delle poche regole costanti nella produzione di Valentini, il quale, per quelle leggi estetiche, ripropone con insistenza delle verità, legate a spiegazioni psicologiche. L’accomunare in modo piano arte e naturale (intendendosi per naturale non l’apporto veristico nel prodotto, ma quello culturale) gli rende possibile fronteggiare l’incipiente strapotere della componente tecnologica sulla società contemporanea e, di conseguenza, riferirsi al proprio fare pittura o plastica come occasione informativa necessaria per evitare speculazioni interpretative di qualsiasi genere. Nel 1960 vengono allestite a Fano e a Milano due sue mostre personali abbastanza importanti e significative.
Nella prima espone disegni, ceramiche e tempere, nella seconda soltanto tempere. Valerio Volpini’, nella presentazione per il catalogo fanese, dimostra come nelle ceramiche si assista alla “ricapitolazione di motivi antichi, secolari, riassunti e accostati a un impegno attuale, se vogliamo anche raffinato, ma che non è soltanto preziosità tecnica”, mentre, malgrado “i segni violenti della pittura” si nota nei quadri “così rigorosi” una “stupenda sicurezza architettonica”. Guido Ballo, invece, nella sua presentazione per la personale al Salone dell’Annunciata, parla di “chiare note pittoriche”, di un segno “portato a sviluppi espressivi che superano ogni compiacimento calligrafico”, mentre “il colore tende a strutture sempre più intense, con tonalità sottili e larghe cadenze che, tra l’altro, ricordano in modo nuovo certi ritmi dei primitivi” dell’Italia centrale.
In verità, tempere quali Continuità, o disegni quali Linea orizzontale e Paesaggio, pur mantenendo l’assenza di qualsiasi figuralità costruiscono un universo illusorio, dove l’uso sapiente di zone d’ombra e di luce richiama il dato veristico, simulando assai spesso una tridimensionalità non voluta, ma esplicita. Nelle opere esposte esiste, quindi, una sonorità di natura quasi tradizionale, anche se al tonalismo contrappuntistico, usato nelle composizioni, si sovrappone un’aspirazione tutta mentale a un continuum spazio-temporale che senza far riacquistare all’osservatore l’occhio dell’innocente giunge a quella comunicazione introspettiva e intersoggettiva, presumibile scopo dell’arte in genere e in particolare di quella visuale. Una poesia di Margherita Guidacci1, riportata nel catalogo dell’Annunciata, commenta perfettamente la sostanza delle ricerche di Nanni Valentini: “Non le visioni sgomentano l’uomo – ma l’ombra che si muove / sul fondo di solitari specchi o nelle gravi acque d’attesa. / Non il gesto o il grido – ma nel deserto del cuore / le lente vibrazioni di un silenzio inesorabile”.
Un grande olio del 1961 (1,50 x 1,70 m) libera il terreno dalle errate interpretazioni psicologiche, ed evocando la presenza di ricordi gestuali-materici d’origine informale pone a base del flusso cromatico una continuità di ricerca che investe le radici stesse dell’esistenza, formulando un arco problematico vastissimo. È, perciò, possibile abbracciare un campo di motivazioni, le cui concomitanze denunciano sotterranei legami col mondo dell’inconscio. L’apertura relazionale a livello sociologico-esistenziale rende percepibili strutturazioni ipotetiche indirette, intese a stabilire contatti con situazioni emotivo-nozionali ambigue e strumentalizzate. Proprio l’ambiguità operativa dell’artista riaffiora, nel marzo-aprile del 1963, quando alla mostra collettiva “Una scelta 1963” presenta al Salone dell’Annunciata di Milano (insieme a Massimo Cavalli, Riccardo Emma, Renzo Ferrari, Alberto Ghinzani, Livio Marzot, Claudio Olivieri e Valentino Vago) numerosi lavori, tra cui Teste, dove scorre una polarità perentoriamente oggettiva e la emblematicità si colloca nell’ambito di nuove premesse panico-percettive, capaci di assumere un ruolo evocativo di un espressionismo scopertamente simbolico.
Gillo Dorfles’, in Artificio e natura, afferma l’impossibilità di discutere oggi di “naturalità” e di “innocent eye”, a meno di riuscire a estendere “i limiti assegnati ai segni della natura e alle possibilità dell’uomo entro tali segni”: discorso giustissimo che Nanni Valentini inconsciamente ha ripreso attraverso l’attività plastica più che attraverso quella pittorica. Gli aspetti formali di tale discorso si manifestano sul piano del linguaggio, direttamente originatisi dalle cose, come risultato di ricerche che nel processo di trasfigurazione delle argille svela la padronanza del mestiere e la raffinata sensibilità tecnica. I disegni e le tempere del 1965, invece, sono pagine di diversa ispirazione nelle quali si arriva addirittura a un tono parlato che corrisponde a una particolare disposizione di coscienza dell’artista, autentico sottofondo a ogni attività dello spirito, sia teorica che pratica. La prevalenza del fatto estetico sembra accentuare la dinamica dilatoria del dipingere e del disegnare in una graduale intensificazione drammatica dei ritmi che procedono in un crescendo dalla sinistra verso destra. Si affaccia nelle composizioni un’analisi quasi strutturale dell’Insieme che nei triangoli, nei quadrati, nelle forme trapezoidali, nei parallelepipedi esprime un processo selettivo dei valori, potenziati dalla sintesi, esaltati dal colore. Il contributo di chiarificazione che la mostra personale, allestita al Salone dell’Annunciata nel 1966, può dare, denuncia un rapporto di relazione-opposizione tra autore e creazione, tra astrattismo di ispirazione geometrizzante e di ispirazione informale che dà il senso di un rinnovamento sostanziale dell’indagine. L’artista con quella aderenza alla vita quotidiana, che rappresenta un felice punto di partenza per il suo agire, passa da terrecotte dove l’aspetto decorativo talvolta prevale su quello contenutistico a lavori molto più complessi e pregnanti, non tanto per l’impaginatura delle calibrature cromatiche o formali, quanto per la ricchezza dei contenuti.
Il rinnovamento della poetica antecedente non rinnega però quei lavori che fin lì avevano giustificato la ricerca, ma dimostra come quel periodo sia concluso e se ne apra un altro, quanto mai prolifico e interessante. Nelle opere esposte, in effetti, la spazialità acquista una precisa valenza strumentale, consistente come concreta materia e impalpabile come episodio dell’immaginazione. Si nota, insomma, il segno dei tempi, l’armonia di un tessuto non più monocellulare, ma sviluppatesi per aggregazione e immerso in una qualificante pluralità, molto eloquente sul piano lirico e sentimentale. L’immanenza materialistica dei manufatti porta avanti una linea melodica semplice, dove si legge un leggero raffinarsi dell’armonia e si riconosce la concomitanza di un non finito, riscoperto come componente provocatoria e straordinariamente sollecitatile di risultati intellettuali aperti a ogni conclusione.
Marco Valsecchi” osserva che “la fantasia di Nanni Valentini, particolarmente irrequieta, tenta soluzioni di forme, un poco bizzarre, spezzettate e, a volte, faticose che rivelano” interessi espressionistici. Gualtiero Schönenberger, accenna a un “contrasto tra struttura definita e segno libero” e all’evidenza monumentale dei suoi “oggetti pittorici”, sostenendo che ”il loro insolito svilupparsi, articolarsi e rifiutare i limiti di una cornice”, dimostra come si possa fare avanguardia “anche utilizzando modi e argomenti nell’aria, senza rotture apparenti”. Obbiettivamente, le opere pittoriche e quelle in ceramica si legano profondamente alle radici culturali di una società rurale, dove gli spazi sembrano scanditi soltanto dalla limpida geometria dei campi squadrati, appena segnati dal passaggio delle stagioni e limitati dagli orizzonti delle colline. D’altra parte a queste derivazioni ancestrali l’artista accosta uno studio intenso sulle possibilità di comunicazione e sui risultati di ricerche nel campo dell’arte, stratificatesi nel tempo e, ormai, considerate punti fermi della cultura nazionale e occidentale. L’anno successivo, nel 1967, Nanni Valentini espone nuovamente al Salone dell’Annunciata le opere eseguite negli ultimi mesi, riscuotendo il solito successo che, tuttavia, non soddisfa ancora pienamente le sue aspettative e le sue aspirazioni, forse perché quella mostra personale non rappresenta ancora un superamento delle problematiche nelle quali si trova ma, semplicemente, l’occasione per analizzare una situazione e per trarne argomenti di rottura e di approfondimento. In realtà, la ricerca di strutture innovative è per lui costante, assetato com’è della necessità di individuare un’area specifica, dove la moltiplicazione di uno stesso elemento, l’argilla, non inflazioni il rapporto, intessuto tra autore e materia, di segnali secondari, seducenti, ma pericolosi per l’opacità mondana della materia senza forma. L’uniforme equivalenza di certe ricerche strutturali lo affascina, ma nello stesso tempo gli raffigura i rischi della mancanza di criteri normativi, delimitanti le possibilità informatrici dei manufatti per la carenza di eventualità interpretative esplicitamente referenziali.
Nel 1968, si verifica un fatto nuovo: l’inizio dell’attività didattica. Si apre così un periodo che dura tutt’oggi e che scopre all’artista la necessità di creare nessi di particolare interesse non solo con i propri discepoli, ma anche con la totalità. La forza della comunicazione diviene predominante e con essa la convinzione che senza una qualsiasi attività percettiva non abbia senso il fare arte e illustrare attraverso l’evento conseguente le proprie attese, le motivazioni, le emozioni e quei fremiti infinitesimali che legittimano un’azione teleologica, diretta, insomma, a informare sulle soluzioni, ritenute possibili, dei problemi della vita. Egli intende, inoltre, approfondire ricerche tecniche prevalentemente indirizzate a scoprire non solo la funzione del colore nella lettura di un qualsiasi lavoro, ma anche della sua complessa utilizzazione nel fare ceramica. Lavorerà intorno alla questione per oltre quattro anni, ma già nel 1969 si intravedono i primi risultati. Alla Galleria II Segnapassi di Pesaro presenta i suoi oggetti, le sue tempere, i suoi disegni che delineano con chiarezza il nuovo tracciato della ricerca, la quale, pur non esaustiva delle sue aspirazioni, denota una complessità sostanziale di vedute, malgrado la semplicità formale dei lavori esposti.
Il critico per l’occasione è costretto ad affermare che “le sue forme sono il frutto di un ricerca attenta e preziosa, (…) la migliore espressione di un mondo poetico, ricco di semplicità e di colore”. Sono sufficienti tre anni di riflessioni, di meditazioni, di tentativi di capire le urgenze intime ed espressive per riaccendere il desiderio di narrare con l’eloquenza dei propri strumenti la personale avventura artistica, indirizzata a conoscere del naturale, del reale e del quotidiano.
Nel 1975 presenta proprie ceramiche al Premio Termoli e al Musée des Arts Décoratifs di Losanna, quindi alla Mostra Internazionale della Ceramica The Cunichi Shimbun di Tokyo, in Giappone, e alla Europàische Keramik der Gegenwart a Frechen, in Germania. “Gala International”” gli dedica addirittura la copertina. Finalmente, nel maggio 1976, espone a Milano, alla galleria omonima, il risultato delle sue lunghe ricerche e subito ottiene un notevole successo. Uguali riconoscimenti riceve in occasione di un’altra personale allestita alla Galleria Lo Spazio di Brescia. Tommaso Trini “rimanda” alla visibilità schermata di un Lo Savio che per incanto si apra sui paesaggi lievi di Melotti”, naturalmente per quel che riguarda la sensibilità, non l’iconografia, e sottolinea come Valentini tenda “a ricreare l’equivalente minimo e mentale della percezione del paesaggio, dunque della realtà”. Miklos Varga, dal Muro “poverista” al Cerchio “neo-magico” e “alle rifrazioni del segno, diagonale alle campiture più diversamente condensate nello spazio reticolare”, nota “una operatività orientata a revisionare la percezione visiva sul contesto poetico dell’ambiguità”. Paolo Schiavocampo, scultore, disegnatore e ceramista sostiene invece, che nelle opere esposte “lo spazio diviene terreno di conoscenza e le ipotesi offrono un grado di realtà quasi assoluta. Piani, linea, colori e proiezioni sono in funzione di una percezione unitaria”, la quale risulta disciplinata dalla necessità di “rappresentazione, tanto più coercitiva e semplificante, quanto maggiore è la possibilità di trasmetterla”. Al riguardo, mi sembra necessario sottolineare la semplicità e l’efficacia della produzione plastica di Valentini, esposta a Milano e a Brescia, che attraverso il Muro (2×2 m), Struttura n. 1 (130 x 130 cm), Scala (140 x 190 cm), il Cerchio, Struttura n. 2 (120 x 120 cm) e le altre opere (interessanti le tele trasparenti con un supporto nel muro) presenta un uomo nuovo, capace di affidare il proprio messaggio alla rielaborazione di esperienze formali comuni, recuperate nei loro valori latenti, quali primordiali valenze culturali sufficienti ad aprire un varco verso quelle nozioni assimilate e conservate nell’inconscio, in grado di trasformare in poesia immagini ormai viste solo come contenuto. La configurazione plastica si delinea in un rappreso divenire che si fa forma, crescendo interiormente e scandendo il ritmo di una situazione che non si concede compiacimenti, ma si trasforma in pagina di vita vissuta e assaporata nella sua durezza, segnata dal tempo e dalla storia.
Di particolare interesse appare il discorso aperto alla Biennale di Gubbio, quando sostituisce “al linguaggio audio consequenziale il linguaggio visivo”. Egli stesso scrive “ho scelto la terra come materia” e continua ricordando che “il ceramista usa l’essenza della terra, l’argilla; la foggia conquistando l’aria, rubando a quest’ultima un luogo per la materia fluida, l’acqua, per poi accettare il complesso di Empedocle, il fuoco”. Si assiste a un preciso riferimento, perciò, ai quattro elementi cari all’alchimia, attraverso i quali Nanni Valentini vorrebbe carpire alla materia “il senso dell’eternità, il lento trascorrere della vita”. A me sembra sia, in particolare, rappresentata nei lavori esposti l’ansia per un’infinita ricerca della verità che sostiene l’azione e che convince l’artista della giustizia del suo proseguire un’indagine così esaltante su una sostanza così umile. L’impasto greificato, composto di argille diverse e di colore, da esse assorbito attraverso bagni di sali metallici, si tramuta attraverso una mera operazione artigianale in indagine meditata e spirituale, in diretta sperimentazione dei valori dell’esistenza, alla ricerca di un divino, immanente nella materia, nella speranza di svelare cosa sia quella impalpabile sostanza nascosta ”nell’interspazio tra il visibile e il tattile”. La “gravitazione semantica nell’ambito privilegiato mano-terra” denuncia, secondo l’artista, l’intenzione di fermare “alcuni segni specifici del linguaggio”; ciò significa che, attraverso un simbolismo isomorfico si esaltano qualità percettive inerenti alla stessa forma visuale, si ha, insomma, una formula codificata che risponde alla esigenza di una comunicazione diretta, senza intermediari. Le esposizioni successive illustrano il senso sempre più insistito delle immagini fisiche, percettivamente legate al desiderio intenso di destabilizzare la rappresentazione attraverso l’uso di simboli collettivi, la cui vitalità, meramente selettiva, appare capace di concentrare l’attenzione su quell’aspetto particolare del mondo. Il modellare l’argilla, per Nanni Valentini, spiega in maniera automatica la consapevolezza fisica della forma e dei volumi riducibili nei confini della metafora per lasciare da parte ogni aspirazione alla trascendenza. La partecipazione, a Faenza, al Premio per la ceramica e la personale, ordinata a Brescia, alla Galleria Lo Spazio, nell’ottobre, confermano il senso di continuità quasi biologico della sua produzione che, nel rappresentare la realtà, la Terra, i Mattoni, i Muri, le Zolle, esprime una consapevolezza antica, usando, come dice Nanni Cagnone1‘, “parole di tessitura” che “si ordiscono” per creare figure, “destino della cosa pensata, dialogo del pieno e del vuoto”.
Nel rifarsi a un discorso generale, Herbert Read11’ ritiene che “la realtà”, sia “una conquista dei nostri sensi, una mappa che a poco a poco si va delineando come esplorazione dei nostri sentimenti, tracciando il contorno delle sensazioni, misurando le distanze e le altezze dell’esperienza”. Ciò significa una mutevolezza continua del grado di conoscenza di un fatto dato, sempre però relativo al grado di coscienza non solo di chi guarda e percepisce, ma anche di chi realizza quel tipo specifico di messaggio. La realtà appare, quindi, come una specie di funzione mentale che misura l’ampiezza della comunicazione.
Nel tornare alle terrecotte di Nanni Valentini, dopo questa premessa, è possibile comprendere come la sua immaginazione verifichi, attraverso fatti semplici, l’intensità degli stati d’animo e la diretta esperienza di quei fatti, inquadrati sul piano di sviluppo di un processo intellettivo, i cui termini acuti e incisivi rilevano una condizione apparentemente statica dell’oggetto, però, allusiva e provocatoria. Quelle situazioni, createsi mediante la cottura dell’argilla, e quelle costruzioni plastiche sembrano protagoniste di n tempo e di uno spazio, avvertiti come attori coagenti di un presente in grado di spostarsi nel futuro fino a inglobarlo nel suo seno, delineando, perciò, un campo fenomenologico nel quale conta soltanto l’hic et nunc esistenziale.
Le meditazioni ontologiche di Heidegger, alle quali Sartre si riferisce, la apodittica verità husserliana poco sopra citata, le correnti neopositiviste inglesi e statunitensi conducono a una valorizzazione delle strutture simboliche, le cui intenzionalità risultano porsi alle fondamenta del fenomeno, fornendo certezze statistiche in contraddittorio con l’indeterminazione e la relatività della percezione, caratterizzante il nostro tempo. Il reperto, perciò, che l’artista offre all’osservatore come pietra di paragone alla quale confrontarsi per riscoprire la propria identità, palesa quale eterno presente, quale scoperta archeologica del pensiero e quale suggestione emotiva in grado di aprire le porte della memoria collettiva l’oggetto artistico che appare capace di trarre dal profondo la coscienza di un momento. L’analisi dell’istante, nella sua plurilocazione temporale, rafforza la convinzione dell’esistere, dimostrando come l’evento artistico altro non sia se non la rappresentazione materiale di un’angoscia personale, destinata nelle intenzioni ad arrestare il tempo.
Le terrecotte di Nanni Valentini esposte nel 1978 in Giappone alla Exhibition of Ceramic Arts di Tokyo e a Falconara Marittima nella personale, allestita alla Galleria del Falconiere, parlano di una dimensione umana, inusitata nella sua consistenza materica, per la quale “l’utilizzazione della forma finalis dell’arte, da un lato, l’inflazione e la effimerità della libertà inventiva dall’altro, sono aspetti coesistenti e non contraddittori”. Soprattutto l’esposizione di Falconara appalesa la natura di quel suo investigare allo scopo “e scoprire crepacci incandescenti nel ghiaccio dell’oggettività” e di creare immagini molteplici, pronte a comunicare, trasformarsi e crescere. La plasticità dei lavori presentati nell’occasione è stranamente duttile, mentalmente capace di superare il suo stesso peso, materia cedevole sfaldata nei tagli, nelle fratture e negli innesti nel senso di un diretto pulsare quasi sanguigno di un sentimento umano e carnale, direi bifronte, rivolto cioè all’esistenza e alle cose, alle relative figure mentali e alla loro presenza metafisica.
La volontà dichiarata di rimanere aderente alla terra, protagonista indiscussa dell’avventura artistica, grazie a una repentina specularità tra particolare e assoluto, tra fissità e sensazione, si trova immersa in un flusso e riflusso di emozioni che travolge il frammento in un trapassare di significati spesso dolorosi nel loro immedesimarsi con l’esistente e l’umano. Il liquido proporsi di una naturalità, intesa a volte come realtà fisica e in altre come supporto fisico di una diversa situazione spirituale orienta il luogo del progetto “verso una cosmologia del privato” avvertibile sin dalle manifestazioni più scopertamente aniconiche. Perciò, i reperti, i frammenti, le terrecotte, i muri, i mattoni divengono da simboli assillanti (la rottura e la caduta) simboli liberanti (il valore organico dell’immagine). Si manifesta, insomma, il senso esatto da dare a quel suo cercare “un ombelico-larva” che apra “la porta alla caverna di Platone per ascoltare gli echi del labirinto”. Tutti i luoghi cercati (da quello del progetto a quello dello sguardo, da quello dell’aria a quello della terra, da quello della trasformazione a quello della misura, a quello della tensione) trovano una loro ragione di verità, una collocazione panica nell’atmosfera e nel tempo.
In altre occasioni Nanni Valentini afferma che “le immagini non sono dei concetti”, che “non si isolano nel loro significato”, ma anzi tendono a superarlo per “frugare la materia”, per scoprire le “intimità della materia”. Terra-numero e Terra-bagnato, presentate a Merate, allo Studio Casati, nell’aprile 1979, sdrammatizzano l’operato della fantasia, assolvono anzi il compito di creare di nuovo un clima dove la motivazione poetica possa sottrarsi al sospetto della gratuità. D’altra parte, Una materia per Pitagora, lavoro esposto alla Galleria Uxa di Novara nel gennaio-febbraio antecedenti, individua ugualmente il ritmo dell’esistenza nello stratificarsi della materia, concedendo alla proiezione delle immagini larghi margini narrativi.
Altrettanto dicasi per la collettiva alla Art Gallery della Boston University, alla quale partecipa con un progetto interessante e ricco di contenuti: Il filo e la tangente. Nel dicembre 1979, alla Pinacoteca Civica di Macerata il tema espositivo, prescelto accuratamente dall’artista, è di sapore architettonico e ambientale, nato com’è da un paziente vagabondare per le strade della città murata, contrassegnata dal caldo colore del cotto. Nulla più del Mattone, nell’occasione, risponde all’intenzione di Nanni Valentini di narrare la propria avventura maceratese e di rendere poetico uno strumento usuale, ritenuto semplice mezzo costruttivo, incapace di finalità estetiche. Sovrapposti, spezzati, bruciati, anneriti, squadrati, appena rotondeggianti i reperti in terracotta, creati dall’artista, rappresentano una porzione di storia minima, anche se non scritta, che va al di là di una tipologia delle categorie artistiche, quasi al limite tra evento plastico e concettuale, ricche di risonanze, legate al paesaggio urbano, e di contraddizioni, legate al paesaggio umano. Il carattere allusivo, ancorato al naturale e al reale, indaga all’Interno del discorso tecnico per trovare quelle suggestioni in grado di respingere la resistenza del fatto artigianale fino a lasciare affiorare la straordinaria bellezza delle risorse materiche. Questo tentativo di conciliare la tecnica con l’immediatezza contenutistica e, soprattutto, con la vocazione a raccontare e a legare le immagini in una catena logico-discorsiva riduce l’evento (accostare tra loro due o più mattoni di un dato colore e di una data forma) a ipotesi referente, per la quale si evidenzia una motivazione poetica e morale, linguisticamente legittima, ma, soprattutto, aderente all’impaginazione compositiva.
Si è, quindi, di fronte a un trapasso da una concezione all’altra dell’esistenza, dall’autonomia di una realtà che si crede di dominare, alla consapevolezza di una realtà invece subita, contro la quale bisogna reagire per sentirsi vivi in un mondo dove non si notano altri margini di speranza al di fuori di una riconsiderazione della vita, dei suoi valori e delle sue prospettive.’ V. Volpini, Presentazione in catalogo per la mostra personale di Nanni Valentini, Galleria d’Arte, Fano, febbraio 1960.
G. Ballo, Presentazione in catalogo per la mostra personale di Nanni Valentini, Salone Annunciata, Milano 22 ottobre – 4 novembre 1960.
M. Guidacci, XVII, da Meditazioni e sentenze, in catalogo per la mostra personale di Nanni Valentini, Salone Annunciata, Milano 22 ottobre – 4 novembre 1960.
G. Dorfles, Artificio e natura, Torino 1975.
M. Valsecchi, Le mostre, ne “Il Giorno”, Milano. Ritaglio di giornale del 1966 conservato nell’Archivio Valentini, Arcore. Manca l’indicazione della data.
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‘M.N.Vara, / filtri di Nanni Valentini, in “Gala International”, Milano, ottobre 1976.
P. Schiavocampo, Nanni Valentini: sempre alla ricerca di uno spazio più ampio, in “Casa e giardino”, Milano, ottobre 1976. ’’ N. Valentini, N. Valentini, in Catalogo per la Biennale di Gubbio, Gubbio 1976.
N. Valentini, dichiarazione riportata nel catalogo per la mostra collettiva: “Alberto Caregnato, Romano Santucci, Nanni Valentini e Claudio Zanini”, Arte Struktura, Milano, 26 novembre 1975.
N. Valentini, Autopresentazione, in catalogo per la mostra personale, Galleria Lo Spazio, Brescia, 18 dicembre 1976.
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G. Angelucci, Presentazione in catalogo per la mostra personale di Nanni Valentini, Galleria del Falconiere, Falconara Marittima, 1978.
N. Valentini, Dichiarazione in catalogo per la mostra personale di Nanni Valentini, Galleria del Falconiere, Falconara Marittima, 1978.
N. Valentini, Autopresentazione in catalogo per la mostra personale, Studio Casati, Merate, aprile 1979.