Nanni Valentini: della materia
in “Gala International”, XVI, 92, Milano, giugno 1979
Tra la mano e la materia sta l’immaginazione attiva come fondamento psichico dell ‘homo faber, nascente da un interscambio di sollecitazioni tra l’agente e l’agito: così Gaston Bachelard suggerisce, in La terre et les rèveries du repos…, la dimensione di un”‘intimità della materia” che completa e sfuma quella, drastica e consueta, dell'”ostilità della materia” come polarizzazione tra progetto e realtà, tra immaginazione e materia.
Su presupposti molto affini Nanni Valentini ha sempre manifestato fin dalle prime opere, che risalgono agli anni cinquanta, un atteggiamento del tutto originale e metodologicamente ineccepibile nei confronti dei propri materiali espressivi.
Non è infatti, quello di Valentini, il tentativo di conferire alla materia inerte forme che nascono e si compiono nella mente, ma quello di indagare un materiale povero ed elementare come la terra tanto nelle sue fenomenologie primarie (stati di natura, misture eccetera) quanto nella dinamica delle sue qualità naturali: durezza, fragilità, rugosità, porosità.
Addirittura, per lui non si tratta tanto di un lavoro su un singolo elemento primario, ma piuttosto sulla sua dialettica fisica con aria, acqua e fuoco, in una sorta di micro-cosmologia in cui la terra riveli le proprie facoltà interne di mutazione, quelle che per via di autonome generazioni ne definiscono gli aspetti formali.
Più che di concepire la materia, per Valentini si tratta di conoscerla con amore e umiltà, sollecitarla a formarsi piuttosto che formarla: lungi da accezioni come il plasmare (che presuppone la volontà e l’atto dell’organizzazione dall’esterno) l’artista assume i caratteri specifici della terra come elementi linguistici già dati, dei quali si tratta di verificare e mettere in luce le intime, infinite possibilità di associazione e articolazione, alla ricerca di quel dato ultimo e ineffabile che è la sostanza della materia. Ecco che allora la sua metodologia operativa non consiste tanto nel sovrapporsi concettualmente alla materia, riproducendo una sua schematica antitesi con la forma, quanto piuttosto nel condurre operazioni che spingono il materiale a rivelarsi totalmente nel suo potenziale organizzativo, caricandolo di valenze ulteriori ma omogenee a quelle primarie.
Nascono così le sue tavole di sequenze, che sviluppano le possibilità significative delle terre dal loro aspetto originario ai vari livelli di complessità aggregativa e soprattutto della loro facoltà di costituirsi in immagini secondo un processo di autogenerazione formale. Nascono le analisi sulla terra e l’acqua (come la splendida Terra-bagnato esposta recentemente allo Studio Casati di Merate), quasi il richiamo alla luce di ataviche percezioni tra il naturalistico e il concettuale.
Nascono, infine, le sue iterazioni modulari di elementi semplici (il mattone, la zolla), che si caricano a ogni passaggio fabrile di nuove, imprevedute suggestioni e indicazioni, trascorrendo fra i due poli stabiliti del massimo di neutralità e il massimo dell’organizzazione non manipolata e non prestabilita.
Anziché ricorrere alla costruzione strutturante, per quanto povera ed essenziale, Valentini opera quasi un’alchimia delle trasmutazioni fisiche, un rituale incestuoso di immedesimazione nell’intimo della terra, tra cultura e mito, tra scienza e tradizione, tra progetto e amore, secondo i modi di un’indagine qualitativa del reale. Un’indagine, questa, che riguarda le modalità e i motivi del mutamento, e contemporaneamente la possibilità logica del mutamento stesso, l’individuazione delle forze agenti partendo dal pensiero di una materia non inerte ma animata quasi da una potenza attiva: in una parola, il riecheggiamento della presocratica physis. Essa si disvela a noi attraverso il nostro rapporto con le cose, tramite il meccanismo di stratificazioni simboliche dell’inconscio collettivo e individuale, fatto, come scriveva Bergson, di materia e memoria.