Simboli del passaggio
in “Keramikos”, n. 15, Milano, giugno 1990
Ho già detto di un richiamo della notte, dell’oscurità dell’Oscuro, in Nanni Valentini (Una materia per Eraclito, in “Gran Bazaar”, 58, ottobre-novembre 1987), di un elogio dell’ombra e dell’acqua. So bene di essere, con pochi compagni di strada, in deriva rispetto alla critica dominante, ufficiale, sull’opera di Valentini e penso, per tutti, al bel saggio di Fabrizio D’Amico a introduzione alla mostra postuma di Pesaro del 1988, che così si conclude: “[…] la sua opera vive e si deve intendere […] come un lungo, luminoso viaggio compiuto verso le regioni più profonde della nostra genesi e della nostra psiche, senza che i fantasmi del caos e delle tenebre l’abbiano mai potuto avvolgere e turbare”.
Di più: Valentini ci avrebbe trasmesso questa assenza di turbamento e avrebbe reso vicine, affidabili, serene, immagini-simbolo che da sempre, e D’Amico lo ammette, sono ritenute inquietanti.
La vasca, il gorgo, la soglia, il volto, l’angelo, il capro (ma la casa, l’angelo, l’azzurro visti come climax di un percorso, come sorriso, luce, gioia) nella lettura, legittima, intelligente di D’Amico, sono prima i segni, poi le figure, di un lavoro in evoluzione positiva.
Potrei tentare un altro elenco delle opere di Nanni; dei titoli, degli argomenti: le terre, le zolle, il cratere, la ciotola, il labirinto, il triangolo, il tripode, l’arco, il portale, la maschera-volto, la luna, le case delle acque e dello scorpione, le ombre, il polipo, la perla, il capro, la deriva, il centro, il nido, il vortice, il volo e il passaggio dell’angelo…
Dei simboli in Nanni, parola che lui non amava in riferimento ai suoi lavori, ma che mi appare ineliminabile, assolutamente centrale. Valentini preferiva parlare di segni, ma so che alludeva alla sibilla Delfica accanto al suo tripode che non dice e nasconde, ma fa uso di segni”.
Simboli quindi, sovente, della profondità, dello ctonio, del sonno, del femminile; ma anche della bivalenza, della polarità e, poi, del passaggio.
Simboli che presuppongono uno sguardo sinottico, attento per coglierne il polisenso, per iniziare a districare un nodo, più nodi, di ineffabilità, per coglierne il carattere, costitutivo, di pluridimensionalità, per ascoltare le risonanze, subirne la forza unificatrice, verso un’idea primordiale del mondo.
Nanni lavora al labirinto, da conficcare nella terra, come prima stazione del lavoro Le Soglie (1979-1980) (o seconda stazione, perché forse la prima era già data da una betulla, da un simbolo assiale, naturale, preesistente). Un labirinto che prevedeva l’uscita, o lo scacco, inizio di un viaggio circolare che può portare a un centro o verso un infinito allontanarsi.
Il labirinto de Le Soglie (che è poi l’unico labirinto realizzato da Nanni Valentini) è composto da due figure più semplici (e sovente ricorrenti nei suoi lavori) di spirali. Spirali duplici, contrapposte, che da un lato tendono all’evoluzione, al crescere, a infinite tangenze e sviluppi, al mutamento, secondo una ossessione simbolica e formale in Valentini che lo apparenta, anche se a un livello diverso di coscienza, alla forse più nota predilizione di Merz per la “Serie di Fibonacci”; che dall’altro, in volute centripete, tendono alla concentrazione, fisica e mentale, alla discesa, a un viaggio non più terreno ma ultraterreno. E le due spirali sono l’una convessa, l’altra concava: simboli, anche, dei solstizi, delle porte della morte-vita e della vita-morte
Nella vertigine del mutamento, come ha detto Gilbert Durand, si assicura la permanenza dell’essere. Nanni amava di più un altro detto di Eraclito che fu la sua principale auctoritas fino a esservi graffito, scolpito, nel lavoro Le Soglie: “Mutando sta fermo”.
Poi Nanni pose a terra una ciotola, un cratere, una coppa, come oggetto nato dal taglio dell’uovo cosmico, recipiente delle acque, e nuovamente centro di spirale, come testimoniano i pezzi in gres, a diversi, programmati crescenti spessori, che aderiscono al bordo e tra loro. E pose un triangolo, che al centro aveva confitto un ferro. Per Mircea Eliade, il ferro può essere caduto dalla volta celeste, o estratto dalle viscere della terra: comunque segno dell’aldilà. E segno ambivalente, di trascendenza e di diabolicità, di rapporto tra un Dio forte, maschio e la grande madre terra.
E dal ferro si dirama il segno del tripode e del suo simbolismo: “Un tripode ardente ti farà capire / Che hai toccato il fondo dell’abisso (…) Formazione, trasformazione / Eterno gioco dell’eterno pensiero…”, come nel Faust di Goethe. E risalendo ai misteri delfici, il tripode appare come l’accessorio caratteristico della divinazione apollinea; culto e accessori fondati sul rapporto, sul transito, sulla “cerniera” tra i mondi e le dimensioni, sulla fessura, sulla mania, e sulla brama mortale di una continua interrogazione. Ma l’iconogramma del tripode richiama anche la simbologia alchemica e l’ambito della riflessione junghiana, e si pensi al Tripus Aureus di Meier, dove il tripode diviene accessorio fondamentale (ma, appunto, simbolico) di una trasformazione diretta a creare un serpente alato, e all’interpretazione di Joseph L. Henderson: “[…] se il serpente equivale alla terra e l’uccello all’aria, l’unione tra il serpente e l’uccello trasforma (…) una coppia di poli opposti (…) in una coppia di opposti complementari (…) realizzando l’unità implicita in questo simbolo (…]”.
Dal triangolo equilatero, tripartito, sopra descritto, nacque per divisione in due, un triangolo rettangolo, simbolo della terra. È l’opera-chiave de Le Soglie: la trasformazione del triangolo equilatero in triangolo rettangolo, che rappresenta anche l’uomo, si traduce, secondo Boezio per come ci tramanda il pensiero platonico, in perdita d’equilibrio. È l’opera-chiave per la scritta che Nanni volle imprimervi: “Piacere per le anime è divenire umide…”.
Sì, certo, Nanni scrisse anche, in altra occasione, di voler giungere a una riflessione sulla terra “non più invischiata nelle triadi, ma con una possibile trasparenza”. Ma qui, in quest’opera, iscrive le parole dell’Oscuro: il piacere-morte (secondo l’ermeneutica di Giorgio Colli). L’ossimoro conturbante, allarmante, tuttavia va inteso all’interno di una visione ciclica dell’esistenza, di un uomo e di un’anima immortale mortale, mortale immortale; di una materia-universo dove “Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua.”
E “Morte della terra è divenire acqua, morte dell’acqua divenire aria, e il fuoco dell’aria, e così di nuovo” (Eraclito, Frammento 76).
Questo lavoro di Nanni è, nuovamente, un simbolo del passaggio, del passaggio estremo, mortale, dal quale tuttavia inizia anche la rinascita, la rigenerazione.
Infine l’arco, l’arcata, le porte, Le Soglie. Il “passaggio della porta”, secondo Julius Evola, avendo il doppio senso di un uscire e di un entrare, di una fine e di un inizio, incarna anche l’idea di un morire e nascere, di un “rinascere”. Le due porte, nel lavoro Le Soglie, richiamano anche le due porte zodiacali, le quali, secondo Guénon, sono rispettivamente l’entrata e l’uscita della “caverna cosmica”.
Oppure, Janua Coeli e Janna Inferni. Che si tratti di oscure forze o positive, viene confermato, riassunto in esse, il significato di tutta l’opera: un “viaggio” esistenziale, di conoscenza, che si avvale di simboli come “supporti”.
L’immaginazione simbolica, non razionale, di Nanni Valentini, particolarmente esplicita nell’installazione de Le Soglie, non è una lettura forzata. Nanni volle, in occasione di una sua mostra, citare, come complice e compagno, Gaston Bachelard: “Le immagini non sono dei concetti. Non si isolano nel loro significato. Tendono a superare il loro significato. L’immaginazione è allora multifunzionale. Possiamo sentire nell’azione entro immagini materiali della terra molto numerose, una sintesi ambivalente…”.
La frase di Bachelard è la cifra di tutto il lavoro di Nanni Valentini. La terra-materia come matrice, il forno come simbolo della matrice, si manifestano attraverso segni ambivalenti, ambigui, simboli, archetipi, fantasmi originari.
Nell’opera di Nanni convivono tradizione e inconscio. La simbologia relativa appare, insieme, prodotto del supermondo e dell’inframondo. Si guardi, ora, alla splendida, conturbante serie dei Volti che nasce, per Nanni, dalla notte con tutte le sue ambivalenze. Nasce dal sogno di Endimione, amato dalla Luna che, per preservarlo dalla morte, gli concesse un eterno sonno in una caverna sul monte Latmo in Grecia.
Le maschere di Nanni sono, nello stesso tempo, quelle del teatro sacro dei Misteri, non “individualità”, ma “tipi” di una realtà cosmica superiore e strutture fantasmatiche, sagome, forme di fissazione di una modalità psichica inferiore.
Così per gli Angeli. L’Angelo di Nanni Valentini è certo quello dell’ amatissimo Rainer Maria Rilke, “la creatura nella quale appare già realizzata la trasformazione del visibile in invisibile…” ma anche, forse per me, quell’angelo-vampiro del bellissimo romanzo postumo di Furio Jesi L’ultima notte, che giace sulla terra umida e bruna come deposito inesausto di forza, sulla terra smossa, un protozoo primordiale, “nudo grumo di vita”, in cui scorre il flusso di ininterrotte generazioni.
La più importante statua di Angelo che ci ha lasciato Nanni Valentini è una spoglia di terra, concava, nuovamente una matrice, dove resta, dell’invisibile, visibilità. Le Statue di Nanni, che citava Arturo Martini: “Per placare le allusive paure, incalzanti dalla terra, dal mare, dal cielo, nacque, strumento di idolatria, la statuaria, e fissò gli ignoti fantasmi in immagini distinte da particolari attributi”.
La Statua di Nanni, felice nella contemplazione della propria ombra, come quella di de Chirico scrittore in Meditazioni di un pittore nel capitolo II desiderio della statua. Occorre ora affermarlo: la straordinaria intensità simbolica nell’opera di Nanni Valentini era diretta a rendere complessa, altrettanto intensa e ambivalente la scultura. Il suo ritegno a riferire delle suggestioni, delle fascinazioni era dettato dalla consapevolezza dell’ insufficienza di una critica solo simbolica del suo lavoro, di un metodo di interpretazione estrinseco che, come tutti i metodi estrinseci (anche la psicanalisi dell’arte) rischia di parlare di un altrove, e di non valutare l’opera. Di non comprenderne l’estrema tensione formale, il segreto.
Si è, nella critica, forse abusato di una citazione da Simmel: “Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine: essa è la cosa stessa e, nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere della cosa sono una cosa sola”. Ebbene, Nanni cercò di tradurre nella materia questa frase della Metafisica della morte, in una ambivalenza della forma di eccezionale densità.
Ambiguità formale non solo percettiva, sensoriale, superficiale, ma profonda, primordiale, costitutiva. Nanni è il più fulminante esempio di un lavoro sulla terra, nella ceramica che diviene ridiscussione della plastica, dello spazio, che rende la scultura, in opposizione a Martini, nuovamente lingua viva.
E di una cultura vastissima, se pur disordinata, di letture ardue illuminate dall’intuizione, che non si sovrappongono, o accompagnano, o spiegano, o giustificano l’opera, ma che si fanno forma, opera. E forma-morte. Fabrizio D’Amico aveva ragione a parlare di un messaggio rasserenante di Nanni Valentini. Sì, le tenebre, l’amata notte non l’hanno mai potuto avvolgere e turbare.
Perché il passaggio dell’anima nella notte, nelle acque, nelle tenebre, dà senso alla vita, e di lì, dall’oscurità sognante, feconda, rigemma un’altra vita.