Silvia Evangelisti

Nanni Valentini – in Scultura e ceramica in Italia nel Novecento
Catalogo della mostra, Galleria d’Arte  Moderna Giorgio Morandi, Bologna 12 novembre / 17 dicembre, Electa, Milano 1989

“Il lavoro II volto di Endimione e i 28 volti di Selene,” scriveva Nanni Valentini nel 1983, “nasce da alcuni disegni e progetti eseguiti prima di abbandonare per dieci anni l’attività. Spero che sia il desiderio di ripartire da dove per tante vicissitudini avevo lasciato, che mi ha fatto riprendere queste immagini”.
In realtà Valentini non ha sospeso mai il lavoro, piuttosto esso si è svolto, saltuario, in campo sperimentale e di ricerca, alternando all’insegnamento all’Istituto d’Arte di Monza e alle molte letture (Jung, Foucault, Barthes, Eco, Bachelard, Heidegger), i primi esperimenti ceramici sui disegni degli anni cinquanta. Dal 1963, ha scritto, non aveva più visitato esposizioni né frequentato “luoghi di cultura”.
Ma un decennio dopo lo scultore torna all’attività in modo continuativo. “Cercai di rivivere le astrazioni che feci anni prima, e ripresi i vecchi progetti di via Mortara, i segni che avevo sperimentato nell’informale, gli ultimi studi di semiologia e di didattica e cercai senza ansietà delle sintesi che mi aprissero una strada”. E dalle scarne e “drammatiche” Teste degli anni sessanta nascono i Volti di Selene, forme primordiali e quasi totemiche, impronte corrose, “ossosi, pieni, corporali come spoglie”, li descrive Flaminio Gualdoni.
Dall’esperienza informale, battesimo esistenziale oltre che artistico, Valentini ha salvato una naturalità e una figurabilità ancora positiva, sofferta ma salvifica: “Senza rinnegare i segni che ci avevano formato, volevamo costruire immagini che non evitassero quella distanza che una cultura, rimuovendo l’indifferenza, andava creando. Volevamo affrontare l’angoscia non per parlarne ma per strappare a essa altri segni da aggiungere a quelli in cui ci eravamo riconosciuti. Era una posizione diversa da quanti, drammaticamente ed ‘eroicamente’, si facevano ingoiare, o da quanti, con l’astuzia degli specchi divini, credevano di poterla possedere conoscendone i miti”.
Proprio dall’esperienza informale, condotta in comunione con artisti quali Tancredi, Novelli, Romagnoni, Bellandi, Valentini affronta coscientemente il problema del materiale come sperimentazione autonoma slegata da fini funzionali. Nelle opere eseguite negli anni intorno al 1960, segni e impronte naturali sono incisi sulle superfici piane, scabre e “neutre”, quasi fossili liberati dalla morsa della zolla, esseri viventi divenuti terra essi stessi.
La materia scelta è la più elementare, quella generata dall’unione degli elementi primari per eccellenza: terra più acqua più fuoco. “Plasmare la terra come terra è un desiderio di far uscire le cose dall’esilio, dove abita il terrore di un io, e ricondurle all’origine, nel luogo del sacrificio della differenza”.
Vi è una sorta di intimo patto tra lo scultore e la materia, un patto di solidarietà e di complicità; non la plasma, egli, con la forza, non la violenta con l’imposizione di immagini già pensate, precostituite, ma rintraccia nell’intimo della materia (terra, zolla, paesaggio) i segni e le cose che essa contiene, e le libera “dall’esilio”. Impronte, tracce, segni diventano volti, spirali, crateri, nidi, cose, entità fisiche che l’artista, si direbbe miracolosamente, riconduce alla vita senza ombra di artificio, così come non fittizio o “messo in scena” è lo spazio in cui esse si collocano: seppure esse non si dispongono disordinatamente ma secondo “una misura, una giustezza di rapporti spaziali, una essenzialità di comunicazione priva di orpelli e di ridondanza”, che Fabrizio D’Amico definisce “autenticamente classica”. Le tre istallazioni presentate al pac di Milano nel 1984 (Deriva, Annunciazione e II dialogo) sono straordinaria testimonianza di questa raggiunta misura classica.
Ma all’interno di tale “giustezza di rapporti spaziali”, accanto e oltre la lettura immediata offerta dal ritmo interno all’opera stessa, dal colloquio spaziale tra i vari elementi, è possibile un’ulteriore lettura, riferibile a una sorta di “ontologia poetica” profondamente radicata nell’atteggiamento estetico proprio dello scultore: ogni opera – come ogni “frammento” – indica e allude già al “tutto” ed è leggibile come discorso compiuto e sintetico della “visione del mondo” dell’autore. Ma è anche frase, frammento, parte di un discorso definito attraverso una sintassi rituale, come una sinfonia in cui ogni frase musicale contiene il segreto dell’intera composizione.
Così come la luce è confermata dall’ombra (senza di essa come sarebbe individuabile l’elemento luce?), allo spazio – il pieno – necessita il vuoto per esistere. “Il pensiero che sottintende il mio lavoro”, ha scritto lo scultore, “mi fa credere che anche il vuoto, come il silenzio, non possa fare a meno del proprio oggetto anche se questo è all’infinito e che l’arte come la poesia sia un cosmo dove l’archeologia è senza memoria e dove le cose disperdono i significati, e il senso non è trasparente”.
A descrivere il vuoto, più che a circoscriverlo o a contenerlo, Valentini “costruisce” i muri di una casa, di più case [La casa dell’eroe, le Case di Barcellona, La casa di Pier Paolo, le Case di Bachelard). Casa come rifugio, cavità protetta (grande utero, grande madre), o come centro del mondo interiore (così è per Gaston Bachelard, cui Valentini ha dedicato una serie di “case”); casa come “luogo dello spazio”, come “figura topica dello spazio concavo”, precisa Gualdoni, “che è caverna, utero, dimora in senso heideggeriano”. 0 metafora dell’universo, espressione del simbolismo cosmico.
D’altra parte, l’esperienza artistica di Valentini è pro­fondamente legata al simbolo o, meglio, al simbolo ancestrale (archetipico), non però inteso come regres­sione interpretativa o filologica, ma come fiducia nella varietà e molteplicità dell’esperienza e della ricerca. Nella sua complessa e straordinaria vicenda estetica, è dominante il tema/problema della conoscenza, che non è solo conoscenza del passato, memoria, ma è soprattutto gnosi “della protensione”, del “non-ancora” – come la definisce Mario Trevi in Metafore del simbolo; una conoscenza cioè che si costituisce come possibilità e come tensione, che non si fonda su certezze acquisite ma si alimenta di dubbi e consapevolezza del proprio limite.
A questo atteggiamento può ricollegarsi anche l’esigenza dello scultore a “fondare” il suo fare artistico, oltre alla mera sperimentazione tecnica e “materiale”. Anche il suo rapporto con la terra è conoscenza, così come conoscenza è il “lavoro” del fuoco che trasforma la creazione dell’artista. Nell’ultimo testo/testimonianza lasciato dall’artista, scritto in occasione della sua ultima mostra (postuma a Dusseldorf, gennaio 1986) pare di trovare, in sintesi, il senso profondo della sua poetica: il senso della creazione, che non ha tempo e spazio definibile, che vive nella figura mitica dell’angelo (“né uomo né fantasma ma angelo che si allontana velocemente guardando indietro, come volesse risegnare il proprio passato”), mediatore tra Dio e gli uomini, creatura – per Rilke – inafferrabile, nella quale si realizza la grande tensione umana della trasformazione del visibile nell’invisibile.
E come l’opera d’arte, l’angelo porta in sé il passato e annuncia il non-ancora- avvenuto ma che già esiste. In questo tempo sospeso, convergente, risiede la creazione e la conoscenza.
Così, la “nascita dell’angelo” è il segreto della vita, è il suo rigenerarsi continuo, il trasformarsi della materia, come il fuoco della fornace trasforma e ricrea l’argilla manipolata dall’artista. E ancora il tempo, e il concetto di continua “mutabilità” che lo accompagna sin dai tempi di Eraclito (“immagine mobile dell’eternità”, lo definisce Platone nel Timeo), uno dei temi centrali della poetica di Valentini. È il tempo heideggeriano (e già husserliano) del progetto e della “decisione anticipatrice”, che è il tempo della gnosi, della conoscenza, ma è al tempo stesso cardine del processo creativo dell’artista: il tempo della “cottura” della terra è il tempo medesimo durante il quale agisce il pensiero dell’artista.
“Nel passaggio dal crudo al cotto”, scrive Pier Giovanni Castagnoli, “la terra cambia sembiante e l’opera si trasforma lontano dallo sguardo del suo artefice, al di fuori delle sue possibilità di intervento; ma per tutto il tempo in cui il fuoco lavora le forme, la stanza resta aperta ai venti dell’ immaginazione e alle imprevedibili direzioni che il loro ingresso può imprimere al pensiero della scultura”.
Se la diadi tempo e conoscenza è l’idea fondante della ricerca di Nanni Valentini, la materia è il mito/archetipo che impronta la sua opera. Prima che elemento fisico da lavorare, da trasformare, essa è metafora, è genesi e gnosi, è attingere all’elemento primario – la terra: “Ho scelto la materia come poetica e soprattutto identificandola con la terra”, per sondare uno degli infiniti possibili segni che essa contiene, “gelosamente custoditi nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dentro ai muri, sotto la pelle, tra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni”.

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