Fabrizio D’Amico

La terra, l’angelo
in Nanni Valentini, catalogo della mostra, Palazzo Lazzarini, Pesaro, 23 luglio / 9 ottobre 1988

“Norio Shibata mi raccontò una vecchia storia giapponese, tuttora rintracciabile, dove si narra come da una terra arida, sabbiosa, piena di sassi e percorsa da antiche radici, una comunità foggiò stoviglie e vasi per la propria sopravvivenza”. Così Nanni Valentini cominciava a ripetere quella storia lontana e improbabile che il grande ceramista giapponese gli aveva narrato, e che è stata anche la storia della sua vita, tesa per trent’anni di lavoro alla ricerca delle forme segrete, degli echi, delle verità della terra.
Dunque, quella comunità raccoglieva la sua terra ingrata, e la depositava in una grande vasca scavata nel suolo, in cima a un pendio. Di lì, attraverso alcuni fori praticati sul fondo della vasca, una parte meno impura di quella terra, lavata dall’acqua piovana, sarebbe andata in una concavità sottostante; i sassi, e le scorie maggiori, rimanendone separate.
Poi ancora, da quella seconda vasca la terra scendeva a una terza, con altra acqua piovana a setacciarla. E “quando l’acqua era quasi evaporata, la terra veniva raccolta, impastata e riposta in un luogo chiuso e umido. Ogni anno veniva ripresa e impastata di nuovo, così per molti anni, finché veniva giudicata pronta per foggiare vasi e contenitori per frumento e olio”. Ma “si dice anche che tali oggetti fossero usati per imprigionare il vento, e per sentire le risonanze della voce”. Il rito, lentamente allungato nelle stagioni, non era dunque soltanto volto a trattenere frumento e olio. Gli abitanti sapevano che, non lontano di lì, avrebbero potuto trovare una terra meno ostinata, “ma sapevano anche che l’anima del luogo non si può, come invece accade con le parole, trasportare”.
Come loro, lo sapeva Valentini. Che alla terra, fino alla fine, ha continuato a guardare come a un luogo pregno di sensi propri, da accostare con animo prudente e trepido; un luogo miracoloso di “indifferenza” e di “nascondimento”; un luogo ove potenzialmente si celano tutte le forme, quelle almeno che contano nel frastuono delle false o inutili verità che (senza neppure giungere a infastidirlo, tanto gli erano lontane) gli sembrava riempissero i nostri anni.
Valentini è stato uomo e scultore di assoluta castità intellettuale; mosso, nel suo agire la scultura, da un rigore fermissimo, da una immobile fedeltà etica verso il proprio lavoro, verso il concetto stesso di arte. Raccogliere la terra, toccarla, imprimerle una cauta e quasi reticente impronta; custodirla, e depositarla nel forno, restando in attesa che la cottura la trasformasse – questo, e questo soltanto, contava veramente per lui.
In quel gesto, laico e insieme sacrale, annegava tutto se stesso; vi confluivano, come smarrendoci il filo tagliente degli affanni quotidiani, tutti i suoi affetti più veri, le sue ire e le sue passioni, le sue speranze, le sue letture – tante, affannose (“ho comprato cento libri”, disse un giorno a Paolo Schiavocampo), e fatte tutte con la fame di scoprire, nel pensiero di altri, una segreta rispondenza con quanto cercava, con quanto aveva già trovato. Al di fuori di questa inesausta ricerca di verità, tutto il resto diventava per lui “sentimentale, cioè privo di sentimento”. E in questa moralità assoluta, capace di nascondergli ogni altra cura che non fosse quella, gioio­sa, del lavoro, una moralità che ha segnato tutta la sua vita, ma soprattutto, in modo ormai pienamente consapevole, la sua ultima stagione, si ritrovano forse le ragioni ultime della grandezza della sua opera.
La materia, che ha amato e toccato sempre, Valentini non l’ha mai cantata: non si è mai concesso – neppure al tempo dei suoi folgoranti inizi, ricoverati negli anni cinquanta, quindi nella piena rigogliosa dell’Informale – di inebriarsi del suo splendore, né di farsi spaurire dalla sua terribilità. Non ha portato su di essa l’empito del forgiatore, non ha voluto crescere sopra di lei ma con lei, assecondandone l’autonoma rivelazione (“più che concepire la materia, per Valentini si tratta di conoscerla con amore e umiltà, sollecitarla a formarsi piuttosto che formarla”, ha scritto Gualdoni). Non l’ha fatta gigante o abissale per scoprire romanticamente, di fronte a essa, il suo piccolo, fragile consistere – “non cerco il mito dell’orfano, né le tragedie del tellurico”.
Madre, per lui, la materia, e la terra che con essa si identifica; ma madre della quale si sia dimenticato il ventre, per fissare i propri occhi limpidi nei suoi sapienti, per scrutarne l’antico, sereno pensiero.
La terra risponderà, “con segni suoi – ombre, luccichi!, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque”. Visibili, ma solo per chi sia disposto ad ascoltare, scemando la propria voce. Tanto gli era bastato (questa volontà, dunque, di dar voce all’anima dei luoghi celata nella terra; volontà pienamente e più volte dichiarata a partire dai primi anni settanta, ma già implicitamente presente, come metodo di lavoro, nel decennio precedente) per prendere una distanza breve ma ferma da Fontana – cui pure guardava come a un maestro di pensiero, dalle sue Nature ferite dal gesto che dilacera e offende, scopre impudicamente, grida.
La terra e i segni è un’opera del 1978 – ma preceduta da molti avvisi; zolle, in infinita, appena variata teoria, raccolte sulla sponda del fiume, nel campo arato, davanti alla casa.
Ciascuna con la sua luce e le sue ombre, con i propri incidenti di forma, le proprie increspature e i propri pertugi, attraverso i quali guardare. È un’opera liminare, per la radicalità con cui Valentini vi esibisce il freno imposto al proprio intervento sulla materia; un quasi programmatico punto di partenza per il lavoro futuro, che dice già interamente i limiti e le condizioni entro i quali esso potrà accadere.
L’ansia di conoscenza, “il desiderio gnoseologico della mano che accarezza la zolla, e dello sguardo che percorre il solco” (Sanesi) lo condurrà fino al “rischio dell’impronta”: che appunto Valentini, ora, riconosce per tale; che limita adesso (siamo all’avvio della sua ultima stagione) al gesto del sollevare dal suolo questa zolla piuttosto che un’altra, e all’atto dell’affidarla al forno, che ne susciterà una vita altra, in parte sconosciuta e inattesa. “Lo sguardo, la memoria, la previsione” sono i modi della conoscenza: lo sguardo che cerca, d’intorno, la forma che la terra nasconde; la previsione dei mutamenti magici, rischiosi, mai del tutto prefigurabili del forno; e, a guidare lo sguardo, a giustificare I’ “impronta” che prima la mano, poi il forno imporranno, la memoria: una memoria che non è per Valentini un ripercorrere tempi e strade soltanto sue proprie, non un procedere a ritroso, venato di consolante malinconia, verso il proprio passato, ma invece un grande, comune ritorno agli archetipi dell’esistenza, alle forme primarie della vita, là ove il sapere, deposti uno dopo l’altro i suoi veli, si identifica con la verità.
Un arrischiato riandare, quasi ciecamente, alle scaturigini dell’essere: Valentini sa che non potranno ormai più essergli compagni solo quei segni reticenti ma infine chiaramente impressi nella natura, quei “segni nel e del paesaggio” che aveva così severamente enumerato, incantandosene, nel 1978; sa che dovrà inseguire altri, più incerti fantasmi, quei “segni invisibili… custoditi gelosamente nella terra” che soltanto la mano che tocca, sceglie, compone, saprà svelare.
Nella terra, che è “luogo vuoto perciò aperto al possibile”, egli affonda allora, adesso, il rischio dell’impronta, solo confidando nel “sogno” – nella consapevolezza – “di avere un ombelico che non è mai stato tagliato”, e che lo vincola ancora e sempre alla terra. Ed ecco vengono le figure: primo il volto; poi la casa; infine l’angelo. Il volto è un tema saggiato già nei primissimi anni sessanta, e che torna adesso tanto più ricco di sensi.
“Forma complessa”, ha scritto Gualdoni, “e forma prima. Massimamente ambigua nell’intridersi di plasticità e apparenza”. È turgido, pieno, aggettante, idolo cieco e veggente, maschera di incomunicato sapere, munita e tetragona al dubbio: talvolta. Ma altrove è il suo contrario: ansa, concavità, forra, accoglienza; quasi per contrappasso a quell’oggetto orgoglioso, gli si apre allora accanto, speculare, il vuoto che la mano ha aperto nella terra per dare quel pieno. Valentini dice così che quella figura da sempre esisteva – solo, celata in un grembo; dice che essa può continuare a vivere a patto che il suo luogo le sia accanto, e in forza di esso; giustifica, esibendolo, il gesto dell’appropriazione.
La casa è il luogo dell’uomo: custodisce il suo fuoco. Vi si iscrivono i segni della terra, da cui nasce; si specchia nell’acqua; la guardano il sole e la luna. Nel lungo sviluppo di questo tema, Valentini ha attinto forse l’acme di quel suo straordinario talento di dare stupore, emozione, calore, senza racconto; di dire con poco, e soltanto attraverso la forma – il trasalimento di un’ombra, il graffio breve sulla superficie del gres, l’incastro di due elementari volumi – il radicamento del pensiero in alcuni, irrinunciabili gangli della coscienza.
Valentini costruisce la casa per ricoverarvi l’uomo; ma, anche, per ricoverarvi la scultura – quel che per lui doveva essere la scultura. Così la casa divenne un luogo, capiente e segreto, entro cui trattenere i segni generati dalla terra; ma fu anche “luogo di una poesia”, luogo appartato e geloso di affetti e di pensieri – di quell’affetto generato da una comunanza di pensiero, che era per lui il più vero.
Sopra la casa passò infine l’angelo, e vi lasciò la sua impronta azzurra. Forse l’angelo della storia, come voleva Benjamin per Klee, che ha il volto rivolto al passato e corre irresistibilmente verso il futuro, “gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”. 0, come ancora diceva Valentini, l’angelo di Rilke, che neppure gli amanti riescono a convocare: “Angelo immenso… seppur ti supplicassi, non verresti…”. L’angelo che è sguardo, sorriso, onda improvvisa…; giuntura della luce, itinerario, trono, scalea…; che corre fra i viventi e i trapassati, ignaro talvolta, lui stesso, del suo destino.
“Si ricolma di te tutta la stanza”: ed ecco, la Casa si inonda d’azzurro, dell’ombra luminosa di un volo già trascorso. Era lì, prima, l’angelo: colonna smagrita, erosa del suo turgore, col volto cieco circondato dal nimbo, procombente sul vaso, come a interrogare quella forma perfetta, e a specchiarvi la propria assenza. Era lì, venuto anch’egli dalla terra: era stato, poco innanzi, vortice, spirale, poi volto scavato che guarda verso l’alto, per conoscere la luce. Forse, quando nasceva, ambì per una volta d’essere più salda presenza – figura, forse.
Ma poi l’angelo ha lasciato cadere per via questa tentazione; è stato, soltanto, slancio, volo, spazio, e un’ombra azzurra che scalda la casa.
La vasca, il gorgo, la soglia, il volto, l’angelo, per ultimo il capro: sono immagini, tutte, gravide di antica carica simbolica, traversate con allarme, talvolta con spavento, dalla cultura occidentale. Valentini ce le ha restituite diverse: rasserenate e vicine, affidabili compagne sulla via ardua e preziosa della conoscenza. L’una è cresciuta di necessità dall’altra, figlie tutte d’uno stesso pensiero; sovente, ha coabitato con l’altra, fino a trovare una propria autonoma fisionomia. E quando Castagnoli, qualche tempo fa, sottolineava l’estraneità profonda della prassi di Valentini rispetto a ogni poetica del frammento e dell’incompiuto, sembrava prefigurare una verità che gli ultimissimi anni di Nanni avrebbero – non compiutamente, perché la sua strada non era finita; ma certo splendidamente – dimostrato: che la sua opera vive e si deve intendere, per comprenderne tutta la grandezza, e per accoglierne tutta la gioia, come un intero; come un lungo, luminoso viaggio compiuto verso le regioni più profonde della nostra genesi e della nostra psiche, senza che i fantasmi del caos e delle tenebre l’abbiano mai potuto avvolgere e turbare.

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