Da una memoria possibile
in “Riga n. 3 – Nanni Valentini” a cura di Marco Belpoliti, Elio Grazioli, 1992
… e allora ci mettemmo a frugare, piegati sulle ginocchia come beduini, e c’era terra rossa come adom, granulosa, frammenti sbrecciati con sbavature azzurre, minuscoli e tenerissimi aloni che si diffondevano come da lune fisse. Il viaggio era quasi sempre per deserti notturni messi a nudo dall’intelligenza degli interrogativi. Aboliti gli orizzonti, tutto era orizzonte al modo in cui può esserlo una porta, un varco. Di cui si intravedevano modesti segni di riferimento, indizi di una soglia appena accennata, ai lati, così da indicare la distanza (purché immisurabile), ma ogni volta rimandata oltre, altrove. Sapendo che altrove prefigura non un arrivo, ma un passaggio, un transito, nell’indicibile percorso verso l’origine. Invisibile mondo della generazione, e porta invernale del mutamento, da farvi passare le anime, e però insieme gli uomini, con la loro sostanza, e gli dèi, con la loro luminosa trasparenza. Verso l’origine come punto di transizione, né partenza né arrivo, e tuttavia —sempre — un ritorno. Compendio dell’universo come l’antro delle ninfe. Non ricordo di aver parlato con Nanni di Porfirio. Certamente di Chronos, soprattutto per l’istantaneità prorogata, ripetuta, del movimento. Così piegati sulle ginocchia per frugare con le dita, con gli occhi, con occhi-dita per la prensilità tattile dello sguardo, dentro le convoluzioni della sua materia a spirale. Per collegare in quel corpo i ritmi della crescita che erano stati impressi dalle dita, prima, e dal fuoco che rarefacendo il senso della terra dava alla terra una durezza quasi senza spessore. Ovvero restituiva alla terra una sua forma affermando una sorta di totalità dell’informe.
Disseminando ogni componente perché potesse risultare evidente la somma turbinosa del suo interno, la compattezza di tutte le difficoltà. E per questo il processo era stratigrafico, archeologico, di ulteriore definizione (prima dello scavo) di ogni elemento che avrebbe dovuto emergere dissepolto. Ogni reperto, ogni frammento un momento, ogni forma inconclusa un attimo decisivo dell’inarrestabile flusso, da bloccare, così che quasi per assurdo fosse intuibile solo il suo essere futuro. Essendo quello, appunto, il motivo del rimando: il rimando, però, come specchio contrario, verso l’interno, il sé della materia se si può dire, facendosi-disfacendosi nella immobilizzata mutazione perpetua. Allora forse le biacche, i rosa, le ustioni dei neri, quegli azzurri che accennavano a sophia attraverso téchne, quelle ombre di grigio o di seppia si disponevano a simulare albe e tramonti in quanto “luoghi”, simultanei e successivi. D’altra parte, davvero, dove si trova esattamente la cosa mentre muta? I mondi, i cieli, gli universi, le loro eventuali musiche, le loro rotazioni, la molteplicità dei loro tempi intermedi, tutto veniva stabilito da una concezione di soglia, perfino i nomi nello stesso gorgo, e gli sprofondamenti, le sortite in alto, le sublimazioni della materia consolidate in materia. Forse di questo stavamo parlando in quella posizione desertica, senza citare il fleur de lis e piuttosto la memoria aurea di Pitagora, tentando di congiungere ogni estremità del corpo, dello spazio, del corpo nello spazio, per analogie che la parola non consente che a fatica. Le equivalenze erano nella materia che pretendeva una forma enigmatica per potersi sottrarre alle definizioni e definirsi come materia. Porta (essa stessa) e cruna, pozzo, bocca, perfino asse, lanus-Janua, esprimendosi con la feconda doppiezza della sua evidenza visibile e tangibile, manifestandosi logos recuperato nella catastrofe del fuoco…