Nanni Valentini, l’uomo della terra
Testo manoscritto letto in seno alla manifestazione. La via della forma. Didattica e creazione. Sala del Camino, Villa Borromeo, Arcore, 21 settembre 2003
Parlare di qualcuno significa anzitutto ricordarlo. Perciò mi chiedo: quale sarà il modo di ricordare Nanni Valentini? C’è sempre questa ingiustizia, nel ricordo: è la nostra parola contro la sua, e se la sua non viene detta — perché lui è definitivamente morto, nel senso che si è sottratto alla presenza, a questo nostro commercio al minuto — che disperazione. La sua opera non potrà esserci d’aiuto, poiché da principio giustamente tace —sapete, le opere non fanno che tacere, siamo sempre noi quelli che parlano. Ecco, una condizione asimmetrica: troppo, di qua, e di là niente.
Perciò si può soltanto ritornare: da parte mia, a un pomeriggio d’inverno avanti a un forno, ad animate sere di primavera, e specialmente a un lungo giorno fuori stagione, con un libro e un prisma che suscitava l’ instancata meraviglia della divisione dei colori, facendomi tornare alla mente anche una vecchia copertina dei Pink Floyd. Ricordo che Nanni ormai portava gli occhiali.
Sembravano una benevola, improvvisata maschera. Nanni parlava del vaso come di una continua conversazione tra concavo e convesso, e vagheggiava di “riunire il visibile e il tattile, l’apparenza e la certezza”. Poiché sporge, poiché va oltre noi stessi, il gesto non può che essere convesso, mentre lo spazio — essendo accogliente — è necessariamente concavo. Se è cosi, allora il vaso di terracotta, il primo dei nostri manufatti — e anche la casa, se in qualche modo è un vaso — doveva essere per lui il più grande, il più autorevole tormento. Ma non si deve accordare troppa importanza alle figure: “Le figure sono accettazioni di archetipi visivi”, diceva. In tal caso, non si decidono veramente le figure — piuttosto si ereditano. Che non siano altro che rassegnati esempi, o forme di obbedienza, le figure?
“Alla terra appartiene l’impronta del piede” diceva Nanni, e a me veniva in mente la Grotta della Bàsura, a Toirano, in cui — da ragazzo — avevo veduto l’impronta di un piede umano del Paleolitico, un piede sinistro.
Impronta d’uomo nella terra: biblicamente, ‘adam è l’uomo e ‘adamah è la terra, particolarmente la terra fertile; ‘adam, polvere della terra, è uomo della terra e per la terra, uomo che non vuole ancora il mondo e accetta la radicata insicurezza della terra. Carlo Enzo dice che ‘adam è il maschile di ‘adamah, che uomo è il maschile di terra. Peccato che la storia abbia fatto dell’uomo un conquistatore territoriale, un avversario della terra. Cos’avrà voluto dire, Nanni, con le parole “Lo sguardo è uno spessore”? Il senso che immagino io dipende da altre sue parole, quelle che parlano della terra come di uno “spessore”, quelle in cui dice della sua insistente impressione di avere — forse essere — “un ombelico che non è mai stato tagliato”. “Quando lavoro,” diceva “cerco di mettere la terra tra me e il mio sguardo”. Ci sono metafore che conviene prendere alla lettera, affidandosi senza parafrasi proprio a quelle parole. La terra, dunque, genera la posizione dello sguardo e la distanza — è lei l’origine della distanza. Se tra me e l’oggetto del mio sguardo c’è la terra, allora io sono al di qua, e le cose sono al di là della terra. Riusciamo a immaginare geometricamente questa relazione? Essere al di qua può voler dire anche essere al di sotto, come un dio ctonio, uno di quelli che scuotono il suolo, aprono i semi. Dunque, io sono della terra e guardo dalla terra — non patisco esilio se non nello sguardo. Ma può voler dire: ecco, mia gravosa palpebra, sonnolenza tra me e le cose, avventura del dormiveglia. Può voler dire: qualunque cosa io veda, la vedrò come una trasformazione della terra, come un segno fatto sulla terra, non diversamente dall’impronta di quel piede sinistro. In altre parole: per quante cose io possa guardare, continuerò a vedere la terra, celata da ogni figura eppure consistenza indimenticabile di ogni figura.
Tra i luoghi comuni delle culture arcaiche c’è l’ombelico del mondo, senza il quale non potremmo mai essere abitanti. Ma la terra è anche la condizione di ogni possibilità, dunque una specie di trascendentale, se è vero che Nanni ne ha parlato come di un “luogo vuoto e perciò aperto al possibile… luogo di tutte le trasformazioni, di tutte le similitudini”, e ha detto che le forme sono altrettante “tracce di queste trasformazioni”. Comunque sia, il senso della terra è la sostanza di ogni sguardo, e terrestri — o telluriche — saranno tutte le immagini. Altrettanto gravemente, Lucrezio diceva: “utera tellus”. Se per Nanni la figura non è che una traccia, un segno rimasto, possiamo comprendere quella sua pretesa di “un’archeologia senza memoria”, di uno “sguardo senza attese”. Non erano nostre le opere, noi non ne eravamo gli autori, poiché si tratta di “far dire alla terra”, e non di “esprimere mediante la terra”. Appartenere alla terra è dunque una condizione insuperabile, che doveva indurci a non sopravvalutare quel che abbiamo edificato sulla terra; invece, abbiamo separato le opere, immaginando che la terra fosse nient’altro che un sostegno, un fondamento. E’ questa la nostra υβϱις, la nostra tracotanza? “Hai la terra, che non ti permette di fare certe cose, e tu le fai lo stesso” diceva.
Mi viene in mente un’altra difficoltà: come si potrebbe avere riguardo per la generalità, l’universalità della terra, operando entro la singolarità di un luogo? Potrà mai essere giusto — ossia necessario — il particolare? Nessun luogo della terra è la terra, perciò può essere uno scandalo trovarsi ad abitare qua o là, a fare questo o quello. Chi provi l’essenziale sentimento della terra, dovrà patire gravi perplessità, dubitosi tormenti.
Vedete, le parole tornano indietro, a raggiungere le zolle; si fanno polverose, le parole — fango, solco, strato, fenditura. Allora ripeterò con affetto queste sue parole: “Per noi il tempo si è fermato a quell’acqua torbida del fiume”; alludeva all’acqua che porta con sé filtrandola — l’argilla, la grande materia delle sue metamorfosi. Ecco, parole svagate entro l’alone dell’amicizia, questa cosa senza preoccupazione, senza contesa, senza prove, e inseparabile da quell’amicizia generale che Nanni dedicava alla materia. Volendo — altra ingiustizia — riassumerlo, togliendolo cosi dai gesti minuziosi, dalle attitudini pensose, dai convinti sorrisi, direi della sua particolare e trepidante pace, in cui ritornava con fierezza l’uomo arcaico, colui che si sente cosa tra le cose, inseparato, prima dell’affannosa disputa tra soggetto e oggetto — l’uomo che ha fede nell’aldiqua.
Le mani di Nanni Valentini sono mani complicate, perché il loro sicuro, involontario pensare ha dovuto intrecciarsi con tante parole tardive. L’uomo arcaico ha letto-meditato molto, dai Presocratici a Heidegger, l’uomo arcaico si è assillato, l’uomo arcaico sa più di quanto vorrebbe. Ma questo indesiderato intrico, che in tanti altri si è fatto inibizione, in lui ha avuto la sorte di un sorriso. Lo sapete, non ci sono limiti al sorriso. Nanni Valentini — l’uomo autoctono, che sperava far nascere la terra, che non parlava della terra ma parlava dalla terra — una volta disse: “La cosa generosa è sempre quella che non si vede”. Beh, io credo ancora che sia lui, la cosa generosa.