Flaminio Gualdoni

“Privilegiai il disegno e la terracotta con la quale feci una serie di piastre con impronte di alberi, foglie. Quello fu il mio primo lavoro”
In “Nanni Valentini”, Silvana Editoriale, Milano 2005

È il 1973, e nel tipico suo modo essenziale Nanni Valentini rimemora quello che considera l’avvio della matu­rità. Molto, tuttavia, è alle spalle. Si può dire, un’altra intera vita d’artista.
La formazione con Angelo Biancini e Bruno Baratti, tra Faenza e Pesaro, ne segna la nascita, in seno alla confraternita orgogliosa e a modo suo aristocratica della ceramica d’arte.
Sono gli anni cinquanta, il vento dell’integrazione delle arti che spira dalla Triennale milanese e che ha per san­tone Gio Ponti con la sua “Domus”, schiude orizzonti finalmente non provinciali alla ricerca applicata nostrana, avvinta sino a quel momento nelle spire di un tradizionalismo cauto e rispettoso sino a farsi stucchevole. Di questo clima conta, per il giovane Valentini, la rimessa in questione della nozione banalizzata di decora­zione, e di forma tradizionale come paradigma ineludibile. Sperimentare ora si può, si deve, piegando l’orgo­glio artigianale a uscire dalle proprie certezze fabrili, ad accettarsi per ciò che esso è, mero armamentario tec­nico, tramite di possibili, non garante di qualità in se stesso.
I fondamentali artigianali, è bene subito segnalare, non sono mai smentiti o ritenuti irrilevanti in quanto fon­damenti tecnici: altrove, in pittura, le spinte autres e i primi vagiti neodada fanno dello sprezzo operativo, della messa in mora del bon ton esecutivo, un possibile segno di valore, e in ogni caso un segno d’appartenenza avanguardistico.
La confraternita dei ceramisti no: anzi, più d’ogni altra congrega avverte il retaggio del “sacro artefice”, il dovere della sapienza modale, cui in questo momento s’aggiunge la flessibilità concettuale nel dialogo con il design nascente, e il travaso di carisma artistico che esperienze come quelle di Lucio Fontana e Fausto Melotti, ancorché controverse, vanno operando.
Conscia di poter giocare una partita importante nelle strategie del nuovo, è la ceramica, almeno nelle sue punte più consapevoli e culturalmente problematiche; proprio in virtù della – e non nonostante – ricchezza della propria identità disciplinare.
Su questo conta Valentini nel progettare una maturazione “dall’interno” come figura di ceramista moderno: un artefice/artista che sia tecnicamente ineccepibile, e allo stesso tempo aperto alle, anzi, alla ricerca delle, contaminazioni con le frange più vive del dibattito nuovo sull’artistico. Questa è la consapevolezza sulla quale egli innesta le molteplici suggestioni di cui si pone in cerca.
È di questi tempi un’ingenua ma intensa attività di scrittura, sintomo primo della bulimia di libri e letture che ne caratterizzerà la vita tutta, e che lo porterà a praticare la pagina, la scrittura, come forma espressiva infine non disgiungibile dalla scultura, e all’esatto opposto della retorica dello “scritto d’artista”.
È di questi tempi, soprattutto, la ricerca di punti di triangolazione con alcune figure dell’arte nuova dal profi­lo complesso e problematico. Dico Asger Jom, Alberto Burri, Emilio Scanavino, Germaine Richier, Gastone Novelli, Tancredi: con quest’ultimo nasce anzi un sodalizio che, inoltrandosi nelle stagioni milanesi, sarà inter­rotto solo dalla brusca scomparsa dell’amico.
Se a tale parterre di suggestioni si aggiunge il rapporto prioritario con Arnaldo e Giò Pomodoro, conterranei e come lui avviati a distillare da una formazione altoartigianale le virtù d’una pratica espressiva altissima, l’o­rizzonte ne è delineato. Si tratta, sempre, non solo di autori attraverso i quali va attuandosi la combustione della vecchia concezione artistica dal cui humus farne nascere nuove, ma anche e soprattutto di figure che tale passaggio attuano con responsabile quanto essenziale rilettura dell’idea storica di artistico, e con una fer­vida e radiante pluralità di ricorsi disciplinari, dalla pittura alla scultura, dall’architettura alla scrittura.
È di questi tempi, ancora, e poi sarà sempre, una sorta di febbrile, verrebbe da dire compulsiva, pratica del disegno: un disegno che sia studio ed esercizio ma anche, da subito, luogo proprio dell’avventura intellettua­le, della comprensione, dell’illuminazione: topos genetico dell’immagine, nella misura potente in cui il nasce­re dell’immagine sarà ossessione concettuale di tutto il percorso dell’artista. Se si intende appieno lo spettro di tali frequentazioni intellettuali di Valentini, si può comprendere come il suo tempo primo non possa non essere, vocazionalmente, che una stagione in cui egli pratica i luoghi e le occa­sioni della ceramica e insieme quelli dell’arte, in cui non è distanza se non strumentale tra il vaso e il rilievo scultoreo, il dipinto e il disegno.
Certo, egli non è così ingenuo da non essere avvertito dell’antica regola delle appartenenze, secondo la quale essere artista è comunque continuamente distinguersi, nella concezione di sé e nella percezione mondana, dalla sfera dell’artigiano. E che il dibattito sull’integrazione delle arti sottintende, da subito, la falsa coscienza per cui si può far dell’arte applicata en artiste, sia essa la vetrata o il rilievo in rame, ma è assai più difficile ascendere all’omologazione artistica a partire da una pratica applicata: lo stesso Fontana, pur in un tempo in cui già è l’oggetto di riconoscimenti indiscussi del suo genio, si risolve a proclamare e ribadire d’esser sculto­re non ceramista, per sgombrare il campo da equivoci che evidentemente percepisce come penalizzanti. Tuttavia Valentini ha una convinzione a un tempo più ingenua e più profonda. Ciò che fa gli importa assai più, di per se stesso, di come e dove ciò che fa viene identificato e catalogato. Indifferente alla ricezione da parte del compound artistico, egli è ora come sarà in seguito, sino ad ammettere negli anni ultimi d’esser stato “tenace avversario” del proprio stesso successo. Ma indifferente soprattutto perché convinto, sin da quegli anni di studio matto e disperatissimo, che l’obiettivo d’esser riconosciuto scultore, o pittore, o ceramista, sia del tutto inadeguato, limitante e fuorviante, quando la scommessa sia diventare artista, un grande artista: quanto meno, all’arte e all’arte sola volgendo il proprio desiderio feroce.
Dunque, eccolo in quei tardi anni cinquanta partecipare a concorsi di ceramica, ottenendo riconoscimenti pre­stigiosi come il premio del 1958 al Syracuse Museum, e insieme praticare i territori del design in compagnia di Luigi Massoni con la Serie natura, e ancora esporre in una delle più selettive gallerie d’arte milanesi, L’Ariete di Beatrice Monti, auspici due figure geniali e fastosamente contaminanti come Lucio Fontana e Ettore Sottsass. Di lì a due anni esporrà con Giò Pomodoro alla Galleria del Giorno, e terrà una personale al Salone Annunciata di Carlo Grossetti.
Proprio nel 1960, alle soglie di un’affermazione che pare avvenire con naturalezza e autorevolezza, Valentini deve affrontare una brusca crisi di crescita culturale. Da un lato, nel disegno e nelle acerbe prove pittoriche egli va crescendo in una figurazione concitata, ossosa, sentimentalmente implicata nelle frequenze di quell’ “esistenziale” che per molti nati in seno all’informale, amici come Bellandi e Romagnoni e Schiavocampo in testa, pare costituire uno sviluppo coerente verso una figurazione di tipo critico, sulla scor­ta di lezioni come quelle di Gorky e De Kooning. D’altro canto il lavoro plastico va sempre più inoltrandosi verso il confine tremendo in cui oggetto e scultura entrano in collisione definitiva, rivelando la drammatica alterità che è stato uno dei temi cruciali del dopoguerra artistico tutto. A prescindere dalle implicazioni d’u­tilità come costitutive dell’oggetto, alle quali Valentini non dà peso sin dall’inizio, è la sostanza stessa, con­cettuale e formativa, la questione. Un processo preventivamente intellettualizzato, necessitante un esito com­piuto, prevede l’oggetto, tanto quanto la scultura è materia abitata da tensioni formative oscure e vitali, che si decidono attraverso segni connaturati, in un tempo formativo teoricamente illimitato, perché partecipe del flusso vitale.
Così Valentini legge il lavoro di Fontana, e attraverso questo la lezione drammatica del Martini ultimo.
Di fron­te a un bivio decisivo, l’artista non può non scegliere la via della ricerca, dell’azzardo, la via della scultura. Per oltre un decennio, a Faenza non si sentirà parlare di lui. In questa crisi pluriennale, travagliata per le implicazioni biografiche ed economiche che essa porta con sé, gioca un altro elemento sul quale oggi, a decenni di distanza, vai la pena di riflettere. Tale elemento, mai oggetto di notazioni scritte da parte di Valentini ma tema ricorrente dei nostri interminabili conversari, è la brusca consapevolezza che egli acquisisce del rischio del talento, e del meretricio della retorica.
All’avvio degli anni sessanta, dopo il triennio forse più vitale dell’arte italiana del secondo dopoguerra, proli­ferante d’esperienze straordinarie e di personalità primarie, egli si rende conto di quanto sia tutto sommato facile trovare un segno, alzare sino al grido la temperatura dell’immagine, facendo leva sulla facilità della reto­rica del nuovo, sull’accademia dell’antistilismo.
Egli vede in ciò l’opposto speculare della propria bravura artigianale, quella che gli permette, senza alcun merito intellettuale a suo dire, d’essere acclamato come il nuovo genio internazionale della ceramica. Per anni egli ha sperato, dell’arte, un’alternativa credibile alle strette d’orizzonte della disciplina natale: ne ha sperato, soprattutto, una misura di autenticità, un’ansia di verità delucidata.
Avvedersi d’un tratto che tutto può ridursi a un rituale vuoto di gesti sprezzati, di materie inerti ancorché brutali, di segni autres per puro merito d’essere autres; avvedersi che essere riconosciuti artisti fa aggio sul fare l’arte; avvedersi di tutto ciò in una fase in cui la grande speranza di vivere la vita vera dell’arte va avverandosi nel suo animo, è delu­sione cocente.
Molti, a questo punto, hanno abbandonato. È vicenda ricorrente. Valentini no. Troppo forte, inappagabile, è il desiderio. Troppo lucido l’amore per quella che egli sa, dopo ogni dubbio e distinguo, essere e voler essere comunque l’arte. E poi, sia detto con affetto, troppo testardo è l’uomo, un misto arruffato d’umiltà e d’orgo­glio incoercibile, per ammettere sconfitta.
Se il mondo dell’arte è “solo” questo, una versione del mondo ristretto e inautentico dei ceramisti giusto più abile a raccontarsi e a far mito di se stesso, è un problema del mondo dell’arte.
Valentini si ritrova solo, ma pronto a iniziare il proprio viaggio solitario alla ricerca di ciò che valga dav­vero la pena di fare.
Il decennio sessanta, a parte un paio di mostre personali di transizione senza alcun autentico costrutto, è un decennio di rifondazione totale del proprio desiderio d’arte.
Valentini ricomincia da dove sa. Dal disegno. Dallo studio. Dalla solidarietà diretta o indiretta di altri come lui, Tancredi e i compagni della mostra “Una scelta”, 1963, il cui senso è, nelle parole di Valentini, “trovare o ritrovare quei segni, quelle parole più prossime a noi non per interpretarle ma per interrogare i loro luoghi, per ascoltare la loro contiguità”.
È possibile un segno vivo, che nutra la formazione sino a farsene identità endogena e autonoma? È possibi­le una figura che non sia relato, ma necessità intima, essere al mondo?
E poi, tutto quel dire di forma e informe, e figura, e immagine, e racconto, e segno, su quali certezze o ipote­si concettuali si fonda? Il dibattito artistico non basta. Intorno molto altro esiste, ineludibile per chi voglia, delle questioni, snudare il nucleo di sostanza.
Valentini riparte dal ragionamento antico sul primato del disegno, sulla tensione intellettuale che ne è alla base, sulla sua capacità sovrana d’individuare, conoscendo e riportando al pensiero senza uscire da se stes­so. Disegna d’après la grande pittura di paesaggio, quella che sa l’orizzonte; disegna dal vero, e in una sorta di sospesa trance febbrile che dopo il vero riverbera per autonome temperature.
E legge, studia, passando in una sorta di vorace inappagamento dalla filosofia alla poesia, da Heidegger a Wallace Stevens… Ecco una cosa che lo studioso non può fare, oggi, ma neppure rimpiangere. Capirlo dai suoi libri. Quanti, non conoscendolo davvero, hanno pensato che l’inventario della sua biblioteca potesse illu­minare, si sono dovuti arrestare di fronte a una situazione bizzarra. I libri di Valentini non hanno riposato se non in piccola parte, prima e dopo, sugli scaffali. Bibliofago nel senso quasi letterale del termine, egli i libri ha triturato, divorato, tradotto in pulsazioni mentali e appunti e idee, intarsiati agli stessi fogli ove proliferava il disegno (e torna alla mente la frase felice di Jean Cocteau, per cui può esser lo stesso segno che scrive paro­le e fa nascere immagini) sino a perderli in quanto oggetti: per verità, proseguendone la vita nella liturgia ami­cale, affine per affine, del dono.
Quei disegni, quelle letture asistematiche, non pianificate, procedenti per spunti e curiosità, in cui riconosci l’amore dell’autodidatta e insieme la sicurezza di chi sa ciò che non vuole, sono i mattoni che Valentini man mano accumula e accantona, in vista dell’edificio che sarà la sua arte.
“Trovai un segno che non era separato dalla materia, e questa aveva una densità più plastica. Era un ini­zio”. Trovare un segno, qualificazione primaria della materia, che schiuda la porta al possibile di senso. Ancora, è soprattutto il dialogo con Fontana a guidare problematicamente l’artista, soprattutto il Fontana capace di trovare, al punto in cui non è più questione di bidimensione e tridimensione, il segno forse essenziale, in quanto mero differenziale di materia e generatore di spazio, atto immediato e irrelato e insieme monema costitutivo d’immagine.
Intenso, tenace, è il lavoro di studio di Valentini in questo periodo, una sorta di conquista e accettazione della solitudine di chi cerca, cui fa da contrappeso la generosità del darsi all’esterno, nella stagione di engagement politico che agita la fine degli anni sessanta. Anche la stagione politica è tanto concitata quanto breve. Commisurando la propria severa ma onesta disponibilità con il repertorio delle nuove liturgie, delle astuzie, delle inautenticità che quasi da subito s’impadroniscono della nuova sinistra, egli avverte che anche questo non è, non può essere il suo ubi consistam. E poi, la speranza rivoluzionaria comporta fede, e Valentini è com­pagno silenzioso sì, ma criticamente ostinato, e pretende di capire: quando capisce, non può che riprendere il fardello del proprio viaggio solitario.
Ecco, è da questo momento, dai primi anni settanta, che la figura del nostro artista è definitivamente quella del viandante medievale, che nella bisaccia porta con sé tutto ciò che è e che possiede, e che si fa ben consape­vole che conta il viaggio, non la meta; che qualcuno percorre un tratto, solo un tratto di strada con te; che si viaggia verso il mai conosciuto, non per confermare le proprie certezze, per riconoscere ciò che già si sa. Dentro la bisaccia Valentini porta cose preziose, una cultura magari disordinata ma quanto mai fervida, la cer­tezza maturata che il sapere dell’arte non è il sapere sull’arte, una padronanza della mano in cui il talento ha lasciato luogo a un radicale criticismo, a un senso sorgivo dell’autentico. Porta, soprattutto, il proprio rappor­to – che verrebbe da dire edipico – con la ceramica.
È la ceramica, infatti, a guidare l’avvio di quella che sarà la sua lunga, strepitosa maturità. La scelta è deliberatamente elementare, la terracotta rappresentando per lui in questo momento una sorta di grado iniziale del plasticare.
In terracotta rinascono i primi dei molti modi originari che, per anni, egli frequenterà. La piastra, in primo luogo, la più contigua alla pagina disegnata, in un movimento di andata/ritorno per cui sul foglio il segno, il grumo materiale, si abbandona a turgori materiali inusuali, aggira l’astrattezza mentalizzante per farsi cosa, mentre sul campo plastico i segni si imprimono, intimi alla sostanza.
In secondo luogo la sfera che è a un tempo seme, che spera una perfezione ma a un tempo si conosce fem­minile, impuramente schiusa a un possibile di generazione. Evidente è la suggestione di Fontana, delle Nature ma, forse più, dei quadri materiati nei quali il foro e il taglio, e parimenti il grumo pittorico e la pietra, sono segno concettualmente e fisicamente proprio e concreto. Tuttavia Valentini sta guardando più oltre, sta ragio­nando già sulla specificità atavica della terra, che da strumento può ergersi a protagonista e domina dell’idea stessa di formazione.
Nel disegno, tornano con tensione e chiarezza nuova i temi degli inizi, il volto e il luogo su tutti. L’orizzonte e lo stare, la figura come complice non antagonista dell’orizzonte in uno statuto di reciproca necessità; il luogo come “dove” necessitato; il volto, apice d’ogni individuazione possibile.
In pittura, quasi per tumulto problematico che in questo momento affronta più cose di quante possa padroneggiare, Valentini pone la questione della natura e della sostanza dello sguardo, la questione della superficie che cattura e respinge, della superficie di verità e dell’inganno apparente, la questione, soprattutto, della natura del cielo, senza la quale l’opacità della terra sarebbe disperante muta oscurità, e i suoi segni non potrebbero sapersi.
La mostra del 1976 alla Galleria Milano è il definitivo punto di svolta. “Erano delle tele trasparenti appese e staccate dal muro. In un’altra stanza c’erano dei pavimenti di terra”. Cielo e terra, appunto. Cielo, se il cielo è quello di Licini. Lo sguardo che attraversa e lo sguardo accecato. L’occhio e la mano: il visibile e il tattile, e la fervida zona da esplorare tra visibile e tattile. E il limite della finzione, la tela come aspettativa della finzio­ne dell’arte, cui contrapporre la concretezza della superficie e dei segni certi di se stessi. I segni che nascono nella terra, i segni della terra, capaci di farsi parola, di essere altrimenti che figli.
Certo, accade – né diversamente può essere, in fondo – che il mondo prosaico dell’arte legga le tele come declinazioni possibili tra astrazione lirica e pittura analitica, e le terre come varianti rustiche dell’arte povera. Tant’è. Non per loro Valentini sta lavorando.
Ora, finalmente, è in grado di vedere il destino del proprio segno, e lo scenario tutto dell’impresa che lo aspetta.
La piastra ragiona della zolla, del mattone, del monema plastico dal quale la pelle può distaccarsi, come rive­lando lo iato tra sostanza e apparire, ma anche il luogo può determinarsi. È, sarà, luogo architettonico, la scala e la soglia, l’arco e la parete. Sarà molto più, il focolare, la casa, la dimora.
Questa è la via di Valentini. La pittura è, egli avverte ragionando sulla mostra, troppo intrisa di finzione, richie­de un “come se” ineludibile. La terra ha vocazioni e comportamenti, ha un distinguersi che si fa segno preci­so e implica il destino della forma fondamentale, è origine ed esilio delle cose.
Le nourritures antropologiche degli anni sessanta, incrociate con i ragionari, i dubbi, gli interrogativi su forma e immagine, su eidolon e simbolo, lo inducono a concentrarsi sui modi originari della terra.
Nella terra egli risente la cavità umida farsi cratere, accidente femminile dell’orizzonte, e il vaso ripensarsi misura prima dell’uomo, la forma e lo stare, la curva generatrice di verticale, il corpo possibile. Intuisce la tan­gente che sottile scandisce il tempo dell’orizzonte e ne eccita le movenze.
Si ritrova vasaio, con sapienza del vasaio biblico: “Dirà l’argilla a chi la forma: ‘Che fai?’, o dirà la tua opera: ‘Non ha mani?”‘ (Isaia, 45,9). L’argilla non è muta, non ribelle, ma con l’artefice instaura un rapporto com­plice, confidente, materno.
Lo scorcio degli anni settanta dispiega definitivamente quasi l’intero spettro problematico di Valentini.
Nella sua ripresa e remise en question della sapienza antica – Giorgio Colli, Bachelard, ancora Heidegger sono ora le letture privilegiate – l’artista assapora la misura profonda, vitale, del tutto anti-intellettualistica, della terra matrice, del femminile, del luogo in cui la differenza non è data ma tutti i possibili sono.
Sapienza è, per Valentini, la stupefazione colta del vedere la ragione fondamentale della terra, quando è zolla secca e aspra e quando si accumula, fluente e desiderosa d’una purezza, all’ansa del fiume. Sapienza è ten­tare il logos oscuro, il passaggio dalla cecità estranea all’umido, al segno.
Sapienza è pensarla Terra-Madre non per gioco culturale di citazioni ed evocazioni, ma facendosene figlio amorevole sino all’incesto possibile. Egli procede, come sempre è avvenuto, ma con differente consapevolezza ora, per serie problematiche. È stato l’orizzonte, è stata la zolla/mattone che si fa luogo, è stato il seme e il cratere.
È, nel 1978, Un ombelico per Empedocle. L’omphalos è centro e spirale (ma centri, e spirali, sono comportamenti di formazione già in lavori del 1973 e 1974, nell’espandersi e accentrarsi della zolla), passaggio ctonio che inghiotte e movimento espansivo del segno, che cresce in vaso: e il vaso è respirazione, tempo, movenza, cratere e individuo. È, soprattutto, luogo. L’omphalos è il simmetrico del sole, lo snodo delle due distanze fon­damentali.
Ecco ancora Una materia per Pitagora, parete di novantasette piastre, mattoni, impronte, sagome, derive, colo­ri, vocazioni, possibilità di muro: ancora, plesso e cavità. Ed ecco il Portale, in cui le zolle/mattoni si fondano – si fondano – sull’orizzontale sino al miracolo della curva, dell’equilibrio che tenta l’aria, quando il menhir diventa intelligenza del cielo.
Ancora, le Soglie, percorso di sapienze del paesaggio, come una natura che prende a stabilirsi, spirale doppia di movimento infinito sull’orizzonte e cratere onfalo, triangolo basale senza crescita e arco disegnato, nudo, nell’aria.
Ed Endimione e i 28 volti di Selene, sui quali altrove mi è accaduto di ragionare che sono “ossosi, pieni, cor­porali come spoglie, come un capitello romanico, e insieme hanno fattezze svuotate da Totenmasken, da manichini metafisici, come impronte nel vuoto, spossate come certi ritratti di Tintoretto. Sono sedimentazioni formali forti, impregnate di materia come i quadri di Carrà e Sironi, amori giovanili che riappariranno in pre­senza forte, infine, nei disegni che Valentini ha lasciato intorno al tema incompiuto del corpo e dell’ombra”.
Nuovamente, come agli inizi, come nelle molte riprese, ecco il volto, la cecità e il vedere, il mistero terribile dello sguardo, il tabù degli occhi. Selene, signora celeste, dell’aria, del silenzio, della notte.
Endimione pare- dros, forse, conquistato non conquistatore, privilegiato come forse è l’artista rispetto al divino, ma testa non volto, corpo non sguardo volto alla finzione suprema.
Il vaso e il polipo nasce come tutte le altre serie problematiche nel fatidico 1978, e introduce una sorta di stringata deriva problematica sul tema. La brocchetta minoica di Gurnià, ove il polipo avvolge delle sue spire correnti, sensuosamente curvilinee, la superficie tutta del vaso, sino a forzarne la corporeità, è il motivo. Il cratere, la rotazione dal centro verso la verticale, l’assunzione di corpo e luogo, l’accidente oggettuale dell’ansa, che è anche però, a sua volta, spira e fluenza, e poi ancora l’immagine come velamento e possesso: e la cecità del volto, ancora, a render drammatico il destino della forma.
Giungono infine, lungamente anche se implicitamente annunciate, le Case. Luogo per eccellenza, perché dimora heideggeriana e risimbolizzazione perfetta dello spazio in quanto femminile: casa che genera interno ed esterno, che chiude dicendo lo spazio, casa utero e calore, oscurità e intimità, materia del vivere.
E attorno a esse la spirale e il cratere che si fanno focolare. È ancora da Creta, insieme all’ossessione del polipo/decorazione, della decorazione come negazione infinita del corpo nella finzione superficiale, che Valentini assume l’idea del focolare che fonda il megaron, luogo della verticalità che rivolge all’aria la cavità ctonia. Tutto ciò si dispiega in un biennio circa di lavoro. Una mole impressionante non per quantità – tra bozzetti, disegni, appunti, varianti e opere che è sempre impossibile dire finite – ma per strepitosa, vertiginosa aper­tura problematica.
Val la pena di soffermarsi sull’accenno fatto, l’impossibilità di dir compiuta qualsiasi opera di Valentini. Il suo è un totalizzante lavorare di studio, votato all’esclusività della ricerca. Al punto da farsi avversario consape­vole della propria stessa identificazione come artista.
Non lavora per esporre, men che meno per vendere, perché d’esser nominato artista non ha il desiderio, anzi ha sospetto. Peraltro, il suo è davvero un continuo rimuginare, interrogare, tentare con le mani. Giungere a un punto, e una volta compreso o intuito ciò che è necessario, passare oltre, aumentando l’intensità della ten­sione problematica.
Le mostre accadono, lo cercano e qualche volta lo trovano. Lui non cerca loro. Espone ciò che in quel momento lo assilla, usa dell’occasione pubblica come di una verifica del tutto privata di ciò che si agita nella sua mente.
A fine mostra, è caso consueto per lui, l’installazione può essere smembrata, gli elementi dispersi – regalati, venduti, rotti non ha alcuna importanza – e la memoria dell’evento affidata a una semplice documentazione fotografica, della quale peraltro egli minimamente si cura.
Se ha una strategia, è quella di vivere nel mondo dell’arte come un clandestino, che può avere una sala alla Biennale di Venezia, 1982, e utilizzarla solo per riprendere da un altro punto di vista il ragionamento delle Soglie, pressoché disinteressandosi d’ogni altra implicazione. E proseguire, in studio.
Gli anni ottanta, e questa fervida, intensa, concentrazione problematica ed espressiva, inducono Valentini a tornare sull’ossessione a lungo rinviata, ma sempre implicitamente coltivata: l’idea del corpo, dell’organico fatto individuo.
Continuano, in uno svolgimento che la morte interromperà bruscamente, le esperienze intorno all’idea fondamentale di casa, di dimora.
Del 1981 è la personale sulle Case a Heilbronn, del 1983 la Casa per Pierpaolo, del 1984 la personale a Barcellona. Del 1982 sono gli studi per quattro grandi case, delle quali solo due vedranno la luce in una ver­sione evoluta. La prima è esposta alla personale milanese al Padiglione d’arte contemporanea. È un volume chiuso, opaco, serrato su se stesso, con quei muri estranei in cemento che dicono la massa introversa.
Ai quat­tro vertici sono quattro capitelli: volti, dunque, ancora volti.
La storia grande della scultura irrompe nelle riflessioni di Valentini, come sistematicamente accade in tutti i suoi brevi anni ottanta, e porta il sapore romanico dello snodo architettonico figurato, che è sguardo da e verso l’architettura insieme, che è struttura e irruzione formale divagante: che è, soprattutto, interrogazione radicale sulla duplicità apparente delle idee di corpo che convoca.
La seconda casa è quella di Modena, esposta pochi mesi dopo la morte, ma già interamente realizzata in stu­dio. È la casa dell’angelo.
Ma già nell’Ombra di Peter Schlemihl, la suggestione dei motivi ulteriori è ben presente. Il pretesto letterario, la divaricazione tra corpo e ombra, è un ragionamento sulla presenza e sulla perdita del corpo, sulla possibi­lità stessa di corpo.
Annota Valentini: “Se c’è un corpo ci sarà un’ombra, e così lasciando ad altri il corpo, ho ritagliato quell’om­bra (perché appartiene alla terra)”.
Perché l’ombra appartiene alla terra, nel dialogo continuo e fervido tra verticale e orizzonte, tra un sopra e un sotto. Il vaso, il volto, il capitello: la statua. Ecco, necessario, definitivo, il passaggio che il destino di Valentini rende finale.
Se c’è un corpo, parafrasando l’artista, non solo c’è un’ombra, ma una statua è possibile. A patto di com­prendere il mistero sacro del doppio, la sostanza di Adamo che è statua di se stesso tra le mani del Creatore. Ciò significa ripartire dalla storia, dalla Venere paleolitica al canopo, dal kouros all’idolo, e avere il coraggio di fare i conti con la misura rinascimentale, con l’antropomorfismo come rappresentazione e metafisica, ma non solo. Ciò significa, per Valentini, riprendere le fila del dialogo mai interrotto – i disegni ben lo mostrano – con i suoi numi novecenteschi, il Carrà antigrazioso, il Sironi oscuramente monumentale ma quanto mai sintetico, e soprattutto Martini.
L’intuizione, forse la scintilla, sono un modello mantegnesco (ma l’indicazione va presa à la Valentini non filologicamente) e certo la memoria dei corpi lignei medievali che potevano essere rivestiti, per sacro e cerimo­nia; e la bambola antica, e il sogno dell’automa, la marionetta e il manichino di de Chirico…
È possibile la statua che sia, in se stessa e per se stessa, non doppio ma individuo altro equivalente, speran­te un’identità forse in quegli occhi vuoti, uno sguardo, lo sguardo; che sia, in altri termini, momento finale della differenza, terra creante un creato?
Mentre i disegni e i bozzetti, gli studi, le prove si susseguono fitti, quasi per naturale comprensione del moti­vo fondante, Valentini affronta il tema dell’angelo.
L’uomo è la terra, l’angelo è l’altro dalla terra, l’altro dall’uomo, complice, in un lucente riverbero  impadroneggiabile di raddoppi mentali e poetici.
Poetici, soprattutto, in una ridda di non dipanabili suggestioni. L’angelo di Rilke e quello di Keats e quello di Benjamin. Soprattutto, credo, “thè necessary angel of earth / since, in my sight, you see thè earth again”, l’an­gelo necessario di Stevens, “perché la terra nel mio sguardo rivedete”.
L’angelo annunziante di Antonello, anche, che non vedi se non nello sguardo (nello sguardo) dell’Annunziata, e quello che fruscia nella sorpresa domestica di Lorenzo Lotto. Ma anche l’angelo di Licini che tenta Amalasunta, l’impura Selene marchigiana: e il suo volto e il fremito di linee frananti e frementi, a dissolvere l’estraneità del cielo.
Nell’Annunciazione del Padiglione d’arte contemporanea tutto è compresente. La colonna statua che è colon­na casa, una decreata (“La creazione è abdicazione”, per Simone Weil, e decreare è spogliare e spogliarsi del­l’io) statua – o forse solo un’ipotesi di esito drammatico della forma dalla materia, per cavità sonante anco­ra – e quel frullo lieve, quel brivido, quell’esser possibile, impronta impalpabile, indicibile.
Che è, però. L’angelo è questo.
È l’angelo che lascia traccia azzurra nella casa di Modena. Azzurra perché sostanza del cielo che diventa un dentro, un passaggio, un possibile. Azzurra come la metafisica delle ceramiche giapponesi. Un’altra metafisi­ca. E sempre la terra.

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