Flaminio Gualdoni

Nanni Valentini. Il 1976, LA PITTURA
Catalogo Galleria Monopoli, Milano 17 settembre – 31 ottobre 2015

Il 20 maggio 1976 Nanni Valentini tiene la personale alla Galleria Milano che segna una svolta definitiva nel suo operare elaborante.

Nato ceramista, è alla pittura che egli affida le sue ansie e le sue speranze, forte di un’attitudine disegnativa straordinaria, in cui sia possibile identificare, scriverà, “un segno che non era separato dalla materia, e questa aveva una densità più plastica”, il punto in cui l’astrazione sia davvero una sorta di riscatto necessitato del naturale, in cui pittorico e sculturale non siano vissuti come alternativi, ma complementari in un processo unitario e radicale di costruzione del senso, proprio come Fontana, il suo massimo riferimento e mentore sin dalla fine degli anni ’50, aveva ampiamente dimostrato.

L’incontro con Carla Pellegrini, anima della galleria, è avvenuto un anno prima davanti a una serie di opere pittoriche nuove in cui egli infine pienamente si riconosce, e di cui subito Pellegrini ha intuito la qualità e il picco di prima maturità.

“Erano delle tele trasparenti appese, e staccate dal muro”, secondo la preziosa traccia autobiografica stesa da Valentini stesso.

Nanni ne fa le protagoniste di quella mostra del 1976. “In una altra stanza c’erano dei pavimenti di terra”, ovvero le prime interrogazioni ultimative alla terra perché si dica, infine, non tramite ma soggetto, non didascalia ma poesia.

Da quel momento, è noto, il Valentini scultore darà quasi un decennio di scultura folgorante, sino alla morte improvvisa. E quelle tele saranno destinate a non essere più esposte, secondo il costume dell’artista per cui ogni raggiungimento era il momento/pausa di un processo e non una cifra formale cui aggrapparsi, e ogni mostra una verifica in vista di ulteriori esperienze d’atelier.

Chiamate variamente, e con un buon margine d’approssimazione, “filtri” o “garze”, queste opere sono per lo più realizzate con tele di juta o garza a trama larga, tale da non opporre una superficie compatta alla luce ma facendosene attraversare. Una stesura pittorica d’un tono liquido di blu abbassato verso il grigio conferisce loro un’apparenza diafana, amplificata dalla scelta di appenderle alla distanza di alcuni centimetri dalla parete: sono dunque plessi luminosi, prima di tutto, e insieme filigrane di corpo capaci d’ombra.

Scrive Valentini: “La distanza dal muro della tela è uno spessore, l’ho chiamato sguardo perchè lo sguardo è uno spessore. E’ la ricerca della distanza che ho stabilito di seguire perché un’arte che ho intravisto mi fa paura.

Preferisco pensare alle cose attraverso una modulazione della stessa luce che le illumina piuttosto di credere che sarò io ad abitare quella luce”.

Certo, sono quelli i tempi della Geplante Malerei così come la teorizza Klaus Honnef, della pittura analitica, e delle diverse al tre denominazioni degli atteggiamenti totalmente rastremati sull’aspetto modale e concettualmente enunciativo del fare pittura: e questo lavorare sulla sostanza e sulla qualità della superficie, sull’autonoma capacità del colore di significare, indicherebbe che Valentini riflette con attenzione su quelle esperienze.

Sono tuttavia i presupposti a essere radicalmente diversi. Ben se ne avvede subito Tommaso Trini, recensendo la mostra nel “Corriere della Sera” del 7 giugno di quell’anno e indicando che i suoi riferimenti vanno piuttosto “alla visibilità schermata di un Lo Savio che per incanto si apra sui paesaggi lievi di Melotti”, ovvero a una questione che è, primariamente, di sguardo e di consistenza di ciò che guardare si può, perché è addensamento concreto di spazi e segni entro la luce.

Le superfici si tendono come comportamenti del colore, ma non offrendo con arroganza la propria unitaria convenzionale chiusa bidimensione. Sia che mantengano ancora il profilo rettangolare o quadrato dell’idea di quadro, sia che le sagomature ne facciano le proporzioni di uno scambio fisico con griglie e reticoli regolari o eccentrici, a loro volta reificati fuor d’ogni clausola di finzione, sia che, ancora, vi insistano incrostazioni opache in sovratono cromatico a dire d’un  materiarsi in aroma architettonico – e certo un riferimento problematico non secondario può essere indicato nelle ricerche sui “luoghi fondamentali” di amici come Uncini e Arnaldo Pomodoro a stabilire un’area in cui non agisca il “come se” della rappresentazione pittorica, queste superfici tendono piuttosto a farsi impronte d’un paesaggio corporeo, e  -è ancora Trini a scrivere- “a ricreare l’equivalente minimo e mentale della percezione del paesaggio, dunque della realtà”.

In un altro testo uscito allora (Nanni Valentini: sempre alla ricerca di uno spazio più ampio, in Casa Arredamento e Giardino, settembre 1976) Paolo Schiavocampo artista sodale di Valentini, nota che nelle opere esposte “lo spazio diviene terreno di conoscenza e le ipotesi offrono un grado di realtà quasi assoluta. Piani, linee, colori e proiezioni sono in funzione di una percezione unitaria”, una sorta di precisabile fisiologia dello spazio pittorico come materia spaziosa.

Dunque, in queste pitture Valentini pone la questione della natura e della sostanza dello sguardo, la questione della superficie che cattura e respinge, della superficie di verità e dell’inganno apparente: che è anche quella, per trascorrimento poetico (“anche Heidegger ha letto i poeti e questi le immagini ecc., è un giro”, annota Nanni), della natura del cielo, senza la quale l’opacità della terra sarebbe disperante muta oscurità, e i suoi segni non potrebbero sapersi.

Queste pitture dialogano con le impronte e i paesaggi in terracotta in cui la terra è intesa in un formidabile prosciugamento antiretorico: “Io nella terra non cerco come la posso segnare o le immagini che la sua plasticità mi offre, né i suoi colori che evocano calore, ma cerco quei segni che si possono distaccare, che possono uscire da lei, e che mi è possibile carpire”.

Cielo e terra, dunque. Cielo, se il cielo è quello di Licini. Lo sguardo che attraversa e lo sguardo accecato. L’occhio e la mano: il visibile e il tattile, e la fervida zona da esplorare tra visibile e tattile. E il limite della finzione, la tela come aspettativa della finzione dell’arte cui contrapporre la concretezza della superficie e dei segni certi di se stessi. I segni che nascono nella terra, i segni della terra, capaci di farsi parola, di essere altrimenti che figli.

Ora, finalmente, Valentini è in grado di vedere il destrino del proprio segno, e lo scenario tutto dell’impresa che lo aspetta.

La piastra ragiona della zolla, del mattone, del monema plastico dal quale la pelle può distaccarsi, come rivelando lo iato tra sostanza e apparire, ma anche il luogo determinarsi. E’, sarà, luogo architettonico, la scala e la soglia, l’arco e la parete. Sarà in futuro molto più, il focolare, la casa, la dimora.

Questa è la via di Valentini. Questa è l’unica pittura possibile, una pittura che man mano il fare con la terra riassorbe in se stesso.

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