Giorgio Faccincani

La poesia del segno: Nanni Valentini
tratto dal saggio di Giorgio Faccincani, La foglia e il triangolo, Generis Publishing, 2024, pagg. 223-238

Giovan Battista “Nanni” Valentini è stato un pittore, disegnatore, ceramista, scultore e insegnante d’arte. Già nei primi anni Cinquanta partecipò a mostre collettive e concorsi di ceramica, primo fra tutti il Concorso Internazionale per la Ceramica d’Arte di Faenza, che vinse spesso. A Milano venne in contatto con artisti e personaggi di rilievo della scena artistica degli anni Sessanta: conobbe Giò e Arnaldo Pomodoro e si legò a Lucio Fontana che lo portò ad esporre in importanti mostre (come alla “XX Ceramic International” al Syracuse Museum di New York, dove vinse il primo premio).

Fondamentale fu la personale tenutasi nel 1975, alla Galleria Milano. La mostra è stata riconosciuta come un punto di svolta, nella quale egli espose il frutto delle sue indagini pittoriche: le Garze (o Filtri), una ricerca attorno allo spessore dello sguardo, tema caro all’artista. Ne 1969 iniziò a insegnare all’Istituto Statale d’Arte di Monza ove incontrò quello che sarebbe diventato, non solo l’amico di una vita, ma anche il compagno di discussioni, di proficui scambi di idee e – anche – ispiratore di molte di quelle che diventeranno le sue famose e imprescindibili tavole didattiche: Narciso Silvestrini.

Valentini non scrisse saggi, non pubblicò direttamente mai nulla (molti sono, invece, i testi a lui dedicati), ma il suo pensiero didattico trovò comunque modo di esprimersi in tutta la sua potenza, qualità e profondità per tramite di tavole didattiche (di solito, ma non sempre, aventi formato A3) che egli disegnava personalmente e che avevano la funzione di dispense. Ognuna di queste tavole verteva su un argomento specifico, che poteva spaziare da tematiche come le variabili visive (vedi fig. 1), il modulo, l’equilibrio, il disegno dal vero, il colore, e così via. Questi fogli-dispensa contenevano spesso anche appunti scritti e riferimenti ad artisti (Policleto, Durer, Friedrich, Goja, Van Gogh, Klee, Kandinskij, Mondrian, Giacometti) ed a filosofi (Empedocle, Eraclito, Parmenide, Euclide, Aristotele), ma anche – seppur più raramente – a poeti (Leopardi), nonché intellettuali e studiosi vari (Arnheim, Simmel)[1].

Gli argomenti, si diceva, erano i più vari e comunque riguardavano l’educazione visiva.

Ad esempio, le tavole che trattavano il tema dell’equilibrio, riprendevano concetti espressi da Kandinsky a Rudolf Arnheim, da Aristotele a Klee. Nella prima parte di una di queste, datata 22.9.85, vi era riportato un testo che era una riflessione sul tema, ma anche una sorta di declinazione poetica. Dalla sua lettura emerge in modo plastico l’approccio multidisciplinare all’argomento affrontato. Leggiamolo: «Pensando [al]l’equilibrio e riflettendo sulla grande importanza che ha nella comunicazione (visiva) nell’arte e nella vita in genere, mi si pone davanti l’immagine di un senso, di una presenza imprescindibile, ma anche di una parola, il cui significato è mobile, indeterminabile. Non è dunque una forma, né un luogo, è come lo “spazio”, le cui polivalenze sono anche contraddittorie; luogo, ambito, cosmo, campo contenitore, distanze di relazioni, ecc… Però è sempre EQUILIBRIO di un qualcosa, una relazione di due o più cose, siano esse visibili o concettuali. È senza dubbio una specie di ANIMA della sintassi la cui presenza […] si manifesta nella mancanza, nella tensione d’instabilità o nella irrequieta contiguità di una soglia, come nel dramma dell’AUT-AUT. (luogo di mezzanotte)». A commento grafico è schizzata una delle tipiche figure umane allungate di Giacometti.

La seconda parte conteneva invece riferimenti più espliciti a vari artisti (Goja, Friedrich, Klee), oltre ad appunti (rimandi non sviluppati, ma da sviluppare, magari a cura degli studenti) che attenevano alla geometria delle sezioni coniche (circonferenza, ellisse, parabola e iperbole) e al rapporto tra caos e cosmo (vedi fig. 2).

È del tutto evidente come questa tavola (che pur faceva parte di un gruppo) non sviluppasse affatto in modo esaustivo l’argomento, ma – viceversa – più che altro poneva problemi, domande, e dunque si attendeva che lo studente integrasse con la propria ricerca, letture e lavoro grafico ciò che in essa era solo (?) un insieme di stimoli, di incitamenti, di suggerimenti e suggestioni. Tipico di Nanni: spiegare poco ma fornire molti input. 

Gli scritti di Valentini erano talmente densi, talmente pregni di concetti che dovevano necessariamente esprimersi in poche parole e che spesso risultavano un po’ criptici, a volte difficili da seguire e interpretare. Tuttavia, erano infusi di una strabordante poetica che rimandava ai mondi più vari, essendovi insiti riferimenti estremamente colti che solo una mente aperta e tramite una attenta lettura e decostruzione del testo si potevano pienamente comprendere.

Su questo argomento seguiamo le parole di Giuseppe Di Napoli: «Quale rapporto sussiste tra la didattica e la poetica? É possibile insegnare una poetica? E se sì qual è la didattica adatta? […] Un dato patrimonio di conoscenze può essere insegnato con diverse metodologie, tutte in diversa misura, più o meno, efficaci, invece quando si insegna una poetica “il come” non può essere in alcun modo, separato “dal cosa”. Al rigore metodologico dell’analisi e della sintesi subentra la passione del fare, il desiderio di creare, il furore immaginativo, l’esigenza incontenibile di esprimere qualcosa di vivo e ineffabile a un tempo; proprio perché si ha viva la consapevolezza che a ogni modo di fare corrisponde sempre anche un singolare modo di vedere e modo di sentire, o meglio in breve, corrisponde un irriducibile modo-di-Essere. […] Per Nanni la didattica è inscindibile dalla poetica personale, l’una è verifica e stimolo dell’altra, perché è concepita e vissuta in modo da trasformare ogni possibilità di fare in occasione per creare una forma, per tracciare un segno visibile i cui contenuti rimandano al senso archetipale dell’attività umana, al senso mitopoietico del lavoro dell’uomo. […] Per un artista come Nanni, che segue la lezione di Parmenide, i fenomeni, così come gli elementi naturali, sono governati dalle forze cosmiche, in virtù delle quali essi si attraggono per amore -la forza di coesione e/o di gravitazione – e si respingono per odio – la forza di scissione e di disgregazione -. Nel passare da uno stato all’altro le cose si trasformano continuamente, tracciando nel tempo solo dei segni effimeri di questo loro divenire. Per uno sguardo poetico gli stati della materia appaiono come forme in fieri di un processo morfologico e ilomorfico incessante […]. Il rapporto didattica-poetica, per Nanni come per Klee, si risolve in una doppia condizione: è possibile praticare una didattica della poetica solo a condizione di avere elaborato una personale poetica della didattica. Le prime tavole didattiche che Nanni consegnava agli studenti visualizzano una serie di esercitazioni, equivalenti sul piano musicale alla fase iniziale e preliminare ad ogni esecuzione, in cui gli orchestrali accordano gli strumenti. In queste tavole ogni strumento viene saggiato in tutte le sue intrinseche possibilità grafiche; ogni segno viene confrontato e accostato localmente l’uno all’altro, esperito in tutte le sue variazioni timbriche di forma, di tono, di lunghezza, di orientamento, di peso, di velocità… In un altro passaggio l’analisi delle implicazioni sintattiche di ogni singola variabile visiva (cioè di ogni elemento essenziale e strutturale della comunicazione visiva) quale: lo spazio, la forma, la grandezza, l’orientamento, la trama, la chiarezza e il colore, è affiancata sulla stessa tavola all’analisi delle funzioni percettive, simboliche, biologiche, e mitopoietiche delle immagini che l’uomo rileva negli elementi naturali, nelle cose che organizzano e orientano semanticamente il suo intorno. Nella visione quotidiana le cose ci appaiono separate, distinte dalla loro singolarità; nella natura però esse si richiamano le une con le altre, facendo riecheggiare in ogni loro rapporto di contiguità spaziale, fisica e temporale i sensi di una fittissima rete di relazioni percettive, simboliche, esistenziali, poetiche e cosmologiche. In ogni cosa, in ogni luogo, dimora un genius-loci, uno spirito che unifica e tiene insieme, raduna e co-stringe alla coesistenza la singolarità con la molteplicità, l’unicità con la diversità; spinge alla consonanza gli opposti e i contrari in una continua e reciproca eco delle corrispondenze: il mare è l’esteso, è l’orizzonte che delimita lo sguardo e che nella sponda incontra la terra; il suolo su cui si erge la verticale dell’albero; la terra, poi, in quanto supporto, in quanto luogo della memoria di tutti i segni ha come destino quello di essere continuamente solcata, ferita dall’aratro che ne solleva la zolla, chiama a ripiegarsi su se stessa per offrire un grembo alla vita del seme. [vedi fig. 3] Queste immagini vengono a loro volta accostate ai segni cosmici dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), alle forze centrifughe e centripete della materia e ai cicli temporali delle stagioni.

Quanto sopra descrive un chiaro esempio di metodologia didattica, molto vicina a quella di Klee, tesa a sviluppare le capacità e le sensibilità necessarie per far risuonare e attraversare ogni cosa o evento su diversi piani: la forma con la funzione, la percezione con l’immaginazione, l’apparenza con l’essenza, l’esperienza con la trascendenza, il simbolo con l’esistenza, la materia con la memoria, il fare con la formazione (come bildung), le forze fisiche con le energie psichiche, la morfogenesi al principio creativo, allo scopo di favorire la disposizione creativa attraverso una sintesi tra fare e conoscere. L’uomo conosce soltanto ciò che fa, sosteneva G. V. Vico. Queste due attività non sono separabili nel lavoro creativo, ma entrambe coesistono e si fondono una nell’altra per alimentare un unico impulso in cui non vi è più un fare senza attesa e non vi è più un conoscere senza sorpresa: conoscere facendo e/o fare conoscendo sono le due facce di quell’unico processo attraverso cui si reimpara a vedere, ad agire e a pensare, rispettando l’originaria radice etimologica del termine conoscenza, che la vuole come una conoscenza dell’idea mentre prende forma; della forma mentre diviene presenza della cosa; della cosa nella durata di un’esistenza; e dell’esistenza come un evento del cosmo. A cosa porta? Verso dove spinge un tale approccio didattico? A porre in evidenza la fondamentale differenza che separa un’immaginazione poetica da un’immagine didascalica. L’immagine didascalica ha un senso quasi sempre compiuto, definito, coglibile direttamente e con immediatezza; essa non richiede sforzi interpretativi, né associazioni, né sollecita rimandi; in breve opera una sorta di concrezione semantica, limitandosi ad una funzione prevalentemente monosemica. Al contrario, nell’immagine poetica ogni segno contiene la latenza di una cosmografia di senso; ogni elemento gioca un rapporto fluido con quello che gli è contiguo e con la configurazione in cui è inserito e coopera con tutti gli altri al fine di offrire ad ogni sguardo ulteriore l’opportunità di cogliere un senso sempre nuovo. L’immagine poetica presenta una significazione sempre aperta, indeterminata e mai de-finita, mai delimitata; ma sempre densa di rimandi, di associazioni, di metafore e di quant’altro sappia cogliere un occhio attento e avido di risonanze simboliche. In ragione di ciò l’immagine poetica è un luogo sorgivo dell’immaginazione e della comunicazione pansemica […]. L’insegnamento dell’arte per Nanni, dicevamo, ha anche una funzione etica, perché questa perfezione, la si raggiunge soltanto per sottrazione: la pratica dell’arte educa ad operare in economia, a rincorrere sempre l’essenziale, ad eliminare il superfluo, il ridondante, l’eccessivo, a rimuovere gli ostacoli degli stereotipi e degli effetti fine a se stessi; a ottenere il risultato migliore con il procedimento più diretto e con la tecnica più semplice; a far vedere il massimo, il tutto, con il minimo segno. Procedere per sottrazione di segni significa puntare a cogliere sempre e soltanto l’essenza pura delle cose e la trasparenza del senso. Nanni in un suo appunto raccomanda che “il segno deve essere il più possibile vicino alla cosa che vuole rappresentare. Il segno deve avere l’economia dell’immagine che vuole rappresentare, vale a dire che non ci devono essere segni non giustificati, …i segni riproducono il senso, la direzione, il movimento, le caratteristiche essenziali degli oggetti” [in fig. 4 un estratto di una tavola di Valentini predisposta per studenti del primo anno dedicata al tema del disegno dal vero]. É questo l’insegnamento di tutti i grandi maestri di ogni epoca, testimoniato con mirabile chiarezza dal grande pittore giapponese Hokusai, “il grande pazzo del disegno”, come amava definirsi: sin dall’età di sei anni avevo la mania di disegnare la forma degli oggetti. Verso i cinquant’anni avevo pubblicato un’infinità di disegni, ma tutto ciò che ho fatto prima dell’età di settant’anni non merita di essere tenuto in alcun conto. Solo all’età di settantatré anni ho capito pressappoco la conformazione della vera natura, degli animali, delle erbe, degli alberi, degli uccelli dei pesci e degli insetti. Ne consegue che all’età di ottanta anni avrò fatto progressi ancora maggiori, a novant’anni penetrerà il mistero delle cose; a cento anni sarò decisamente giunto a un grado di meraviglia, e quando avrò centodieci anni, nella mia opera tutto, anche una semplice linea o un punto, sarà cosa viva”[2] […].

Il disegno per Nanni come per Klee, non è una mera riproduzione del visibile, ma un far-vedere, un rendere visibile ciò che per sua natura permane invisibile. Il processo di figurazione dell’oggetto è per Nanni il risultato di una proiezione di forme simboliche, di un’accurata selezione di segni finalizzati alla visualizzazione del ritmo e del movimento morfogenetico della forma; simile a quello delle forme vegetali, ma che implica anche un movimento verso la conoscenza dei propri limiti. L’oggetto deve uscire dalla quotidianità, dalla tassonomia (tutti gli oggetti della realtà), per potersi aprire e costituire l’occasione di capire la realtà di tutti gli oggetti cui appartiene, aprendosi cioè all’infinito. La materia, di cui sono fatti gli oggetti, viene estratta da un processo di trasformazione ciclico degli elementi naturali dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco. Questi elementi interagiscono anche nei processi di lavorazione: la terra viene lavorata dall’acqua, nelle anse dei fiumi per essere trasformata in argilla, che il fuoco cuoce trasformandola a sua volta in ceramica. In questo processo si inserisce il lavoro della mano dell’uomo che, nel modellare la forma del vaso, esercita una forza centripeta, opposta e simmetrica alla forza centrifuga esercitata dal movimento rotatorio del tornio. “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile. …L’arte è una similitudine della creazione ma non del creato… nell’ambito dell’arte bisogna ben distinguerlo scopo del rendere visibile: se si tratta cioè di notare cose viste per ricordarsele o di manifestare cose invisibili. Se avvertiremo questa differenza e la terremo ben ferma allora potremo dire d’essere arrivati al punto principale della figurazione artistica…. L’artista tende verso l’unica, essenziale immagine, quella della creazione come genesi…. ove la legge primordiale alimenta ogni processo vivente, nel grembo della natura, …dove è custodita la chiave segreta del tutto…“[3] L’arte porta il linguaggio al suo limite estremo, nel punto in cui si può rubare a dio il suo segreto… coglie lo spirito, l’anima, degli oggetti e delle creature… questo segna il limite della nostra arte sulla terra… oltre questo limite essa si perde nei cieli”[4]. Questo è quanto fa dire Balzac, nel suo Capolavoro sconosciuto, ai due pittori Poussin e Porbus estasiati dal capolavoro del vecchio Frenhofer, il grande maestro insuperato della pittura. L’arte è essenziale quanto insopprimibile per l’uomo, perché, come dice lo scrittore Pessoa, tutta l’arte è la confessione che la vita non basta»[5].

Per continuare nell’analisi delle tavole-dispense, in un’altra di queste, dedicata al tema dello spazio (senza data), nella prima metà in alto si trovava una poesia di Leopardi e un disegno ad essa ispirato. La poesia è L’’Infinito, pubblicata nel 1826, ed è la seguente: «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura. E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei. Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare».

Di seguito vi era riportata una frase di Einstein: «Ogni concetto di spazio è una libera creazione dell’immaginazione umana, progettata per una più facile comprensione della nostra esperienza sensibile».

Un altro aspetto molto caro a Valentini atteneva ai temi della crescita, della ramificazione (di cui abbiamo già parlato in capitoli precedenti) e della germinazione/nascita (vedi fig. 5).

Anche in questo caso il suo amore per Klee emerge in modo lampante, essendo questi punti chiave di molti dei suoi disegni/dipinti, appunti e testi. Il tutto si inseriva nel tema più vasto dell’osservazione dei fenomeni naturali e delle loro trasformazioni (si veda anche D’Arcy Thompson).

La sensibilità di Valentini lo portò – discostandosi così dunque dai “maestri” sopra citati – ad unire queste riflessioni grafico-letterarie a rimandi, non solo ai grandi artisti del passato, ma anche ai poeti e ai filosofi classici. I suoi poliedrici interessi lo indirizzarono verso il tentativo – riuscito! – di riunire sotto il medesimo tetto dell’educazione visiva gli apporti più disparati e, apparentemente, lontani. Tuttavia, analizzando le sue tavole didattiche, questo insieme a prima vista eterogeneo di contributi appare assolutamente scontato, naturale, necessario e coerente.

Un’altra cosa suscitava il suo interesse: il colore. Qui gli fu d’aiuto Narciso Silvestrini, tramite le numerose conversazioni e i suoi appunti. Valentini aveva comunque come riferimenti principali Klee e Kandinsky, che questo aspetto lo avevano lungamente trattato, senza dimenticare Itten e Arnheim. Da Silvestrini prese a prestito le varie teorie sui sistemi cromatici, i metodi di classificazione, il tentativo di strutturare – anche dal punto di vista geometrico – un ambito che di per sé non è strutturabile e ordinabile in senso assoluto. Ecco allora, se non il suo interesse, almeno la sua attenzione per i sistemi CIE, NCS, Munsell, le sintesi additive e sottrattive e così via.

Il senso del suo insegnamento si può in qualche modo ritrovare e sintetizzare nel testo di una prova d’esame di maestro d’arte (al terzo anno dell’ISA di Monza) del giugno 1979. In esso, tra le altre argomentazioni introduttive, si può leggere quanto segue: «Nel primo anno abbiamo preso in esame i segni delle cose VISIBILI (gli oggetti), con: […] la spazialità, i suoi oggetti, la restituzione sui piani ortogonali; con le VARIABILI VISIVE. Lo spazio / la forma / la grandezza / l’orientamento / la textura / la chiarezza / il colore. Nel secondo anno abbiamo incominciato a esplorare i segni delle cose INVISIBILI (le relazioni), con: rappresentazioni oggettive e soggettive dello spazio, la prospettiva, il campo fenomenico, i volumi, i toni, le forze, i contrasti. Nel terzo anno partendo da scelte soggettive abbiamo preso in considerazione le cose PARLANTI (i comunicanti), con: il segnale, l’indizio, il sintomo / l’immagine, il simbolo, il segno: con un’esperienza di un linguaggio visivo storico». Qui si ritrovano molte delle tematiche care al maestro e vi possiamo intravvedere quali erano per lui i punti focali dell’insegnamento dell’educazione visiva, quali ne fossero gli strumenti teorici primi, imprescindibili e necessari.

Nel 1992 la rivista Riga dedicò il suo numero 3 a Nanni Valentini. La pubblicazione è stata curata da Marco Belpoliti e Luigi Grazioli e conteneva diversi saggi e/o estratti da testi scritti o interviste di vari esponenti della cultura artistica italiana come, per menzionarne solo alcuni, a parte gli stessi Belpoliti e Grazioli, Giovanni M. Accame, Massimo Cacciari, Nanni Cagnone, Umberto Galimberti, Flaminio Gualdoni, Salvatore Natoli, Giovanni Schiavocampo, Carlo Sini, Giorgio Soro[6].

Il numero monografico si è occupato di Valentini in quanto artista, e non insegnante. Ma come si è avuto modo di raccontare, le due facce della sua attività erano assolutamente indistinguibili e inscindibili. Una alimentava l’altra.

Alcuni dei temi a lui più cari, come quelli che riguardavano, ad esempio, i quattro elementi («I quattro elementi – terra, acqua, fuoco, aria – non vogliono farsi abitare. Cercano un luogo dove unirsi (trans-linguaggio). Io cerco un ombelico-larva che mi apra la porta della caverna di Platone per ascoltare gli echi del labirinto. Il centro, il margine e il contiguo»[7]), lo sguardo (non il vedere, sia chiaro), la parola-segno, i filosofi come Empedocle e la mitologia antica, la geometria come disciplina capace di comprendere e descrivere le morfologie e le trasformazioni delle strutture naturali e la loro evoluzione e conformazione (tra queste privilegiate vi erano le spirali – o i meandri – che, secondo l’artista, si ponevano a metà strada tra la forma e la crescita, come l’epifania di un lento propagarsi dalla terra, dalla quale si origina e alla quale è destinata a riconsegnarsi. Qui c’è il tema della geometria: «La geometria degli elementi così come quella del sensibile è già oggetto di desiderio. Entrambe abitano nello spazio immaginario. Credo che la forma sia non un “consistere” ma un continuo tra in-formazione e la deformazione e che quindi una geometria del discreto sia adeguata a rappresentare (forma-de) ma non altrettanto a inventare (forma-in)»[8].

Per chiarire meglio la questione è di aiuto riprodurre alcuni dei testi dello stesso artista riportati nella pubblicazione di Riga.

«I quattro elementi, terra, acqua, aria, fuoco mi interessano. Così come lo sguardo, la memoria, la previsione. […] Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile. Forse è un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato»[9].

«Questo lavoro è il risultato di una ricerca che ha per oggetto lo spessore dello sguardo. Questo spessore è inteso come fenomeno percettivo e come storia di un’attenzione. La tela dipinta diventa trasparente e non avendo altro perimetro che il proprio assume la qualità di una porzione di filtro. […] il filtro diventa una lamina (dal fenomeno delle lamine per interferenza di luce). Anche il colore monocromo riprende il dato della “diffusione” e “dispersione” del raggio luminoso. Le figure sono delle accettazioni di archetipi visivi»[10].

Capire che cos’è un segno, ove si cela e si rivela era per Valentini quasi un’ossessione, un argomento che ricorreva continuamente nelle sue riflessioni: «Sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre, luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni. Sono visibili allo smarrimento, si negano alla linea retta»[11].

Era quello della terra altro tema ricorrente; come poteva non essere, essendo lui un artista che con questa materia lavorava e che dunque questa materia raccontava.

La terra viva era per Valentini un divenire, movimento, flusso, generazione e creazione; come egli stesso affermava: «Penso alla terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore di Geremia, alla Terra Madre che partorisce i figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio ed a quella che imprigiona l’ombra delle farfalle»[12]

C’è un ulteriore testo di Valentini che riguarda la terra e che vale la pena riportare: «Norio Shibata mi raccontò una vecchia storia giapponese, tuttora rintracciabile, dove si narra come da una terra arida, sabbiosa, piena di sassi e percorsa da antiche radici, una comunità foggiò stoviglie e vasi per la propria sopravvivenza. Su un pendio scavarono delle grandi concavità unite tra loro come gli scalini di una scala. Nella concavità più alta deposero una particolare terra; dei buchi servivano a travasare in quella contigua tutto ciò che la pioggia poteva sciogliere, lasciando sul fondo le parti più pesanti (sabbia, sassi, eccetera). L’acqua limacciosa lasciava nuovamente posare, nella seconda conca, le parti più pesanti che servivano poi per far mattoni. Nella terza si travasava la parte più liquida e qui si attendeva che l’acqua evaporasse. Questo processo durava circa due o tre stagioni. Quando l’acqua era quasi evaporata, la terra veniva raccolta, impastata e riposta in un luogo chiuso e umido. Ogni anno veniva ripresa e impastata di nuovo, così per molti anni, finché veniva giudicata pronta per foggiare vasi e contenitori per frumento, olio eccetera. Si dice che tali oggetti fossero usati per imprigionare il vento e per sentire le risonanze della voce. Bachelard ci dice che nella fiamma di una candela abita la verticalità. A me piace pensare che nella terra abita l’anima del luogo. Perciò, un’anima per ogni luogo. Quest’anima che partecipa alla stessa verticalità della fiamma, ma trova la propria trascendenza nel senso opposto a quella. Infatti quegli abitanti sapevano che nel luogo vicino forse c’era della terra già pronta per essere lavorata, o quanto meno non era così “ostile”, ma sapevano anche che l’anima del luogo non si può, come invece accade con le parole, trasportare. È come una pianta con la sola radice. Vado spesso nei campi a raccogliere zolle di terra per ripercorrere quel rito laico, ma gli impasti che faccio, le argille che uso, partecipano di quella tecnologia nata dall’antico sacrilegio. L’ombelico della luna è ancora sotto il ponte. Quando lavoro cerco di mettere la terra tra me e lo sguardo: ma il senso si ritrae ugualmente e il premere si identifica con il sognare. Trovo sentimentale, cioè privo di sentimento, assumere le figure della “tradizione” come portatrici di valore, perché la terra è sempre indifferenza, è quel nascondimento di cui parlò Norio, è l’interrogazione che va al vuoto, a un supporto senza storia. Della terra c’è solo la sensazione che esiste nel nostro inconscio come grande memoria. Ma all’arte, anche quella fatta con la terra, non si addice più il centro gravitazionale dei valori, né tanto meno si può parlare ancora dell’arte come sintomo della dispersione, della crisi del centro; ma anche l’arte fatta con la terracotta può raccontarci l’apparizione di luoghi, la presenza, anche lontana, di fantasmi abbandonati, di volti muti, di spessori non riflettenti, di percorsi meno attesi. Indizi, frammenti, ma certamente desiderio di uscire di nuovo dalla metafora»[13].

Il passo successivo, seguendo l’esempio di Klee, non poteva che portare dalla terra al seme, all’uomo che scava e mette a frutto il proprio lavoro, alla genesi di tutte le cose, di cui il germogliare è il simbolo per Valentini più pregnante. Portare, ancora, al gesto che tale operazione contadina comporta e alle similitudini con chi – come lui – lavorava l’argilla che viene scavata, estratta, manipolata per poi – infine – donarle una forma che, come nel ciclo infinito della vita, rimanda alla terra madre, all’origine del tutto: la terra, il seme, il germoglio, la pianta, il frutto e ancora il seme che ritorna alla terra (vedi fig. 6). 

Nanni Valentini, dunque, non ha mai distinto l’artista dal docente. I due aspetti erano sovrapposti (o sovrapponibili) e complementari; si compenetravano a vicenda e l’uno infondeva linfa vitale nell’altro.

Per comprendere meglio questo aspetto della sua vita sarebbe sufficiente riferirsi e analizzare alcune sue opere composte da una serie di formelle, piastre disposte a mo’ di pseudo-scacchiera, di tavola pitagorica, che formano una specie di tavola sinottica, quasi un catalogo delle varie possibilità e potenzialità della materia ceramica, della terracotta, delle sue possibili variazioni e permutazioni in ragione delle differenze di argille, impasto, di temperatura di cottura, dell’utilizzo o meno di ossidi e via dicendo.

Questi lavori sono al tempo stesso opere e indicazioni didattiche; ricordano in qualche modo la famosa tavola periodica degli elementi di Mendeleev, in quanto anche capace di suggerire e indirizzare possibili combinazioni tra i suoi vari componenti. In esse, come ha osservato uno dei massimi critici di Valentini, Flaminio Gualdoni, ci si inoltra nel tremendo confine nel quale l’oggetto e la scultura entrano in conflitto, in collisione.

Si tratta di vere e proprie esposizioni delle potenzialità insite nella materia stessa (la terracotta), di una sorta di singoli fonemi o, se si vuole, di singole parole che – messe insieme – formano odi, poemi, discorsi e racconti: il racconto della terra, delle sue leggende e dei suoi miti. Roberto Sanesi, osserva che: «Valentini ripercorre il processo della consumazione ricostruendo, per così dire, in negativo. Costruisce la materia (la terra) e ne trae oggetti; già di per sé “segni” oltre che oggetti che portano il sigillo del suo intervento, non per intendere e dimostrare i passaggi da una natura informe originaria a una natura fattasi rappresentativa di una presa di possesso conoscitiva da parte dell’uomo ma per intendere e dimostrare il suo essere prima, per frammentazione. Credo abbiano questo significato i suoi reperti disposti su tavole, talvolta fino ad alludere a sequenze numeriche che rimandano segretamente al pitagorico (presente in Empedocle): archeologica negazione dell’archeologico per lasciare che emerga un archetipo»[14].

Le lezioni di Valentini dimostrano una complessità e una varietà di riferimenti rara e forse insuperata. Il suo sguardo passava dall’arte dei grandi maestri del passato, alla letteratura e poesia, alla filosofia e così dicendo.

Nondimeno, un occhio di riguardo l’ha sempre avuto per le esperienze del Bauhaus nel suo complesso – ma in Klee in particolare – per la capacità che questa istituzione ha dimostrato di saper fondere insieme i vari linguaggi ed espressioni dell’arte. Tuttavia, oltre a Klee, tra gli insegnati della scuola di Weimar ce ne fu uno che – per certi versi – può essere forse imparentato con il modo in cui Valentini tenne insieme l’arte e la letteratura; parliamo di Lothar Schreyer [15]. Questi fu anche un grande amico di Paul Klee e uno dei principali animatori del Bauhaus, sperimentando, in accordo con Klee, la possibilità di trasformare in forme e colori i sentimenti e le situazioni.

Una frase del letterato, riportata in un breve testo che porta come titolo il suo nome, chiarisce il rapporto che egli intratteneva con la pittura e letteratura: «Anche con me Gertrud Grunow ha parlato con un oracolo. “Caro Schreyer, non dipinga troppo presto! Prima impari bene la parola!”»[16].


[1] Questo metodo sarà poi imitato da altri docenti dell’ISA, in particolare da Marco Mirzan e Giuseppe Di Napoli.

[2] Henri Focillon, Hokusai, Edizioni Alfa, 1982, pag. 59.

[3] Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Gian Giacomo Feltrinelli editore, 1970, pagg. 76-454.

[4] Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, Passigli, 1983, pagg. 67-84.

[5] Giuseppe Di Napoli, Didattica e poetica in Nanni Valentini, in Il pensiero visivo, centro stampa dell’ISA di Monza, 2001, Pagg. 337-352.

[6] Marco Belpoliti, Elio Grazioli (a cura di), Nanni Valentini, in Riga n. 3, Hestia, 1992.

[7] Op. cit., pag. 38

[8] Op. cit., pag. 40. Testo di Narciso Silvestrini per Nanni Valentini.

[9] Op. cit., pag. 31. Testo originariamente pubblicato nel catalogo della mostra collettiva Spazi, Galleria Arte Struktura, Milano, novembre 1975.

[10] Op. cit., pag. 32. Il testo, probabilmente del 1976, è stato pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra Nanni Valentini opere: 1982-1985, Galleria Civica di Modena, 1987.

[11] Op. cit., pag. 70.

[12] Op. cit., pag. 133.

[13] Testo del 1985 pubblicato sul catalogo di Gubbio 86. 19a Biennale d’arte.

[14] Roberto Sanesi, Repertorio per Nanni Valentini, in Nanni Valentini. Ceramiche e luoghi, catalogo della mostra alla Galleria Milano, marzo 1980.

[15] Fu anche tra i membri fondatori della scuola Waldorf di Berlino (la pedagogia Waldorf o steineriana è un approccio educativo sviluppato a partire dal 1919 su indicazioni di Rudolf Steiner). 

[16] Lothar Schreyer in Op. cit., pag. 69. Gertrud Grunow fu una cantante e pianista tedesca che insegnò al Bauhaus collaborando con Itten. Sia Klee che Kandinsky trassero ispirazione dal suo insegnamento.

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