Giovanni Maria Accame

Procedere per frammenti
in Conversari, Studio Dossi, Bergamo 1984, conversazione con Nanni Valentini

Accame:  Il procedere per frammenti. Il proporsi della tua scultura come un’ininterrotta opera che si diffonde, si espande, raggiunge e travalica confini ma non si disperde.
Credo che non si possa che partire da qui, da questa prima constatazione di una caratteristica costante nella tua opera che, proprio nell’ampiezza della frammentazione, trova la tensione di un’idea unitaria e al tempo stesso suggerisce l’attesa, l’attenzione verso un luogo del divenire. Uno spazio delle forme che sposta sempre oltre il proprio confine. Che suggerisce come il concatenarsi delle presenze si costruisca anche attorno alla constatazione di assenze. Alla constatazione, se non sbaglio, che nella differenza che distingue queste forme, nella distanza che ci permette di coglierle singolarmente come opere, nella Deriva è leggibile il senso del loro stesso ordine.
Valentini:  La sperimentazione. La poetica del segno ricercato negli eventi primari. La scelta e il rischio di amare Morandi, Licini, Fontana, avendo attraversato il rapporto drammatico arte, ideologia, politica. Non mi resta altro che credere in questa storia; una storia fatta di frammentazioni.
C’è in gioco l’identità, l’individuazione di autonomia: al frammento, come al segno, si addice uno spazio fatto di trame, reti, percorsi infiniti. Una geometria dove i punti sono nodi e i centri seduzione; in questo luogo le forme sono poco più che sensazioni: frammenti dunque, che la poesia strappa per comporre.

A.:  Vorrei ora che tu mi parlassi di un’opera che più di ogni altra si articola per frammenti, concepiti però come insieme, visti in un ordine che si riconosce appunto nella frammentarietà. Mi riferisco a Deriva, che hai esposto nella tua mostra al pac di Milano. Vorrei me la descrivessi e mi raccontassi come si è formata. La “descrizione” dell’artista dice sempre di più di ciò che apparentemente descrive…
V.:  …Volevo chiudere un periodo dove lo spazio era sempre uno spazio vuoto, tautologico rispetto alla terra; vi appoggiavo reperti, segni, contiguità, vi sperimentavo spessori, vi creavo alchimie senza forma, con propri segni che potessero indicare singoli sensi. Il mito di Osiride, la grande metafora del fiume, mi ha dato lo spunto. Simmetrico rispetto allo spazio che ricerco: l’ho pensato con un centro azzurro da cui iniziano tre spirali di terra nera su un grande contenitore. Come trasportati fuori, intorno, tredici frammenti; i mesi lunari sotto forma di zolle.
Zolle che prendessero come riflesso principi di forme diverse, il tetraedro, la bocca, l’anfora. L’azzurro è un omaggio ai ceramisti egiziani che con l’argilla e la sabbia del Nilo hanno creato il più bel turchese che esista.
Durante il lavoro ho intravisto altre possibilità di materiali come il metallo, i vegetali e le pietre colorate. La Deriva è stato il proseguimento de II vaso e il polipo, dove dall’anfora cretese si staccano i due elementi per creare diversi destini: al polipo come ai frammenti le vicissitudini del volto e dello sguardo, al vaso come al centro il rischio dell’attesa e dell’ascolto. Ancora oggi, come da ragazzo, vado sulla spiaggia lungo la riva per cercare un frammento di quel turchese.

A.:  Nel tuo riferirti alla terra, come spesso fai, non solo come materiale per la tua scultura, ma come contenitore di tutte le forme, come luogo del possibile, traspare una visione della terra in senso primordiale, quale matrice di archetipi e impulsi primari. Mi sembra però di cogliere nelle modalità del tuo lavoro un altro significato che la terra viene ad assumere. La materia, la terra come filtro. Come crogiuolo entro cui riferimenti culturali, modelli o citazioni, raggiungimenti tecnici o espressivi si trovano riuniti o confrontati con una presenza “forte”, ingombrante. La materia/terra quindi non solo come passaggio materiale, ma anche come filtro intellettuale. Un “pensiero forte” che qui agisce frammentando e al tempo stesso unificando confluenze diverse.
V.:  Fino a ora e con la Deriva la terra è stata un contenitore di segni propri. In uno degli ultimi lavori con altri segni ho fatto un volto di Edipo in terra bianca dove ho infossato le dita e ricoperte le cavità di argilla rossa. Argilla sangue di Adamo, cieca e muta.
Benché sono sicuro che la terra non rifletta segni, ho tentato un lavoro sui volti di Bacon. Non so come andrà a finire. Comunque il rapporto con la terra-materia mi spinge fuori a tentare. Il piacere delle anime non è for­se quello di diventare umide?

A.:   La materia come luogo. Questo è per te sicuramente l’inizio, il momento in cui la mano e il pensiero si riconoscono. La mano all’esterno, tra le terre e gli strumenti, il pensiero all’interno, nel silenzio delle cose pensate. Il luogo della materia si moltiplica però nel tuo lavoro in diverse situazioni di spazio. Interno, Antro, Bocca, Ansa, Guscio, Spirale, Centro, tutte opere che indicano una proliferazione di luoghi. Anche qui si riaffaccia quel procedere per frammenti che non è solo degli oggetti, ma anche degli spazi, in quanto gli uni e gli altri nascono da idee che prendono corpo proprio da un continuo e insistito rapporto tra una materia che si concretizza e si propone in tutta la sua espressività e uno spazio che le si muove accanto con altrettanta incisività. L’idea di spazio che però sembri prediligere è quella che si accompagna a un’idea di cavità, di luogo intorno che, sebbene si apra all’esterno, racchiude sempre una propria penombra, un centro…
V.:  Sì. Nel vaso, nella poetica della cavità, riconosco il mio lavoro e la mia ricerca. La mano che foggia un vaso, preme, si esprime, pensa dal di dentro: per risonanza, come in un tempio. È una asimmetria già decisa. Da quella penombra dove abita anche il seme si vede solo il cielo.

A.:  Nel tuo studio mi hai fatto vedere qualche cosa che non conoscevo dal vero, ma che ora non posso non considerare una parte rilevante del tuo lavoro: mi riferisco alle carte, ai grandi disegni che vai facendo da molti anni. Mi ha colpito non solo la qualità, la forza straor­dinaria che li distingue, ma quell’essere fatti in gran parte con la stessa materia delle tue sculture, terre come rigenerate dall’acqua che si fanno sostanze docili per la pittura. Ed è anche dietro questa pittura che, tranne alcuni casi specifici, non è mai progetto di scultura, che ho avvertito come in realtà su queste carte tu giochi una partita tanto libera e di felicità espressiva, quanto delicata e tesa. Perché questi frammenti, questi squarci terrosi sono il tuo più riposto laboratorio di idee, non progetti. È qui che tu agiti e ravvivi una tensione inventiva che poi raggiungerà la materia e da qui la tridimensionalità delle forme. Vorrei che tu mi dicessi qualche cosa su questa parte del tuo lavoro e se quanto ho detto si avvicina al vero.
V.:  Lo sguardo e le parole con cui hai tentato le mie “carte” e i disegni, risvegliano mai sopite emozioni che mi riconosco. Quelle che solo per me il disegno ha esposto e svelato, ma che non ho mai offerto al rapporto con gli altri. Come nelle parole del filosofo, il senso del privato: “la natura ama nascondersi” e “…la terra si fa mare ed il mare si spande…”.
Spesse volte sogno a occhi aperti di avere un ombelico che non è mai stato tagliato: allora la terra diventa una cosa come la polvere, il fango, le crepe dei greti, le superfici deserte da percorrere all’orizzonte, delle ruvidità e secchezze da segnare. Sono queste presenze che inseguo con il disegno. Un lungo ombelico che si agita. È una ricerca che ho iniziato dodici anni fa… Certamente al frammento come al segno si addice uno spazio fatto di trame, reti, percorsi infiniti. Il mito e il simbolo sono punti di arrivo e il centro, l modello sono memorie ancestrali. Una geometria dove i punti sono “nodi”, l’avvicinamento tensione, le tangenti incontri di margini. Margini e nodi come luoghi del dialogo, dove, come dice Eraclito, l’uomo è convocato per conoscere la propria differenza con Dio, con la propria follia. In questo luogo le forme sono poco più che sensazioni; fram­menti dunque che la poesia strappa non per ricomporre o decomporre ma per comporre.
Il vaso greco, dove è dipinta la storia di Edipo, va visto all’altezza dell’occhio, gira all’infinito ma è sempre diverso, mentre quello cinese va visto dall’alto ed è fermo. Dal suo interno trabocca come l’acqua uno smalto turchese pallido che, benché opaco fa trapelare il supporto di terra. I due nascondono sicuramente una complementarietà: quale? Uno dei miei ultimi lavori è il volto di Edipo, di terra bianca, a forma di uovo, dove ho “infossato” le dita e poi ho ricoperto la cavità con l’argilla rossa. L’Argilla – sangue di Adamo, muta e cieca. Mi è difficile spiegare il rapporto che ho con la terra e la terra-materia. Perché se c’è un’archeologia dell’uomo e delle cose, c’è anche un’archeologia dei concetti e delle immagini con un altro tempo e altri intervalli. Certamente la terra ha uno spessore che non restituisce l’immagine del tuo operare: essa non riflette, assorbe solamente. Sì, è nella cavità del vaso che ricerco un contenuto e la sua estensione. Anche agli enigmi non siamo riusciti a dare che risposte arcaiche. Eraclito, Empedocle, Edipo, la spada e la coppa sono presenze che sento “semplicemente” vive. Alla terra appartiene da sempre l’impronta infossata del piede così come gli appartiene il vaso che si eleva alla luce per preservare e custodire con l’ombra; è lei che ha inghiottito i muri di piume e cera dell’oracolo. La superficie interna-esterna del vaso trattiene l’antica dicotomia comprendere e capire: cioè intendere per risonanza, come un tempio. È ancora il filosofo greco che dice: “La terra ospita e rifiuta”, “ama nascondersi”. Non puoi quindi progettare, ma è proprio questo rifiuto, questo nascosto che solo il disegno può esporre e svelare.

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