Marco Belpoliti

Delle cose visibili e invisibili
in “Finisterre n. 2”, Edizione Elitropia, Reggio Emilia, primavera-estate 1986

“Egli è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura: poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Lettera ai Colossesi, 1,15). 
Ora che Nanni Valentini non è più con noi, ora che se ne è andato, per sempre, rileggo queste parole di san Paolo, che mi sono care, e mi accorgo che parlano del suo mondo immaginario: il cielo, la terra, il volto, il visibile, l’invisibile; e solo ora mi rendo conto che la sua arte si iscrive con forza in quella che Klee ha chiamato la “preistoria del visibile”.
Osservando i suoi lavori di terracotta, ho sempre avuto il sentimento della loro enorme forza e insieme della loro precarietà, come se il gesto materico, che egli aveva compiuto nel generarli, fosse ancora poca cosa dinanzi alle energie e alle potenze germinali che si stendevano oltre i confini dell’opera visibile.
Klee, maestro e artista amato da Valentini, ha scritto che “Oggi la relatività delle cose visibili è resa manifesta, e con ciò si dà espressione al convincimento che, in confronto all’universo, il visibile costituisce solo un esempio isolato e che ci siano, a nostra insaputa, ben più numerose verità”. L’arte di Nanni Valentini si è inoltrata nel regno delle ben numerose verità, varcando la soglia custodita dalle leggi del puro visibile, tanto che ci è possibile affermare che essa si compendia nell’atto di rendere visibile l’invisibile, nel gesto di portarlo alla luce.
Solo dopo la sua inattesa scomparsa ho letto in un suo testo una frase significativa: “Sono segni, ancora segni nel e del passaggio, ombre, luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li precorre, sono dietro i muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall’anima del tempo con tutti i successivi segni” (Galerie Rota, Heilbronn 1979).
Le sculture di Nanni Valentini non sono opere definite; esse non riproducono il mondo visibile – “L’arte non ripete cose visibili, ma rende visibile” (Klee). Dell’illimitato, che si apre al di là di questo mondo, portano il segno dell’energia nascosta e delle sue trasformazioni, l’impronta delle forme possibili che possono sempre divenire; ha scritto ancora Nanni Valentini: “Una cosa credo di sentire con certezza: che soggettivamente concepisco la materia come luogo di tutte le trasformazioni, di tutte le similitudini. Le forme sono le tracce, i segni tangibili di queste trasformazioni, e anche il luogo dove l’insonnia fa sì che non si creino simulacri e le impronte sono sicuramente delle necessità”.
Ogni suo lavoro in terracotta o su carta reca l’immagine del gesto creativo, della potenza generatrice, dell’infinito mondo della creazione originaria. Le sue sculture sono frammenti, schegge, scaglie di quella origine che continuamente si ri-genera e si ri-vela; esse esistono in quel luogo che è il punto di tangenza tra il visibile e l’invisibile.
Ho ancora dinanzi agli occhi alcuni dei lavori che egli aveva esposto nel 1984 al Padiglione d’Arte Moderna di Milano col titolo di Deriva, e che dopo la mostra aveva ammassato con noncuranza nel cortile dello studio. Portano il nome di Guscio, Spirale, Sole, Ansa, Antro, Onda. La parola deriva indica l’allontanamento dell’acqua. Osservando questi frammenti dalla forma difficile, aspra e inconclusa, che ricordano sia i resti di un focolare primitivo che i brandelli di un naufragio materico, si ha la sensazione che provengano da un altrove remoto nel tempo, ma prossimo nello spazio, da cui sono stati spinti fuori e trascinati sino a noi per effetto di invisibi­li correnti. Ogni pezzo che compone Deriva ripete lo stesso gesto iniziale, proviene dal medesimo luogo, ove chi osserva è inesorabilmente con-vocato.
Il senso della creaturalità gli è appartenuto profondamente; ogni sua opera – dai primi volti in terracotta degli anni sessanta sino alla Nascita dell’angelo, l’ultimo suo lavoro esposto all’Hetjens-Museum di Dusseldorf – contiene il riconoscimento della creatura, della sua unicità. Nel mondo del visibile ogni creatura è una delle immagini dell’invisibile, una sua manifestazione. Il volto di Endimione e i 28 volti di Selene è il titolo di una delle sue opere più belle, che si presenta come una lunga e inesausta riflessione sulla creatura e il suo volto. Anche il volto umano rappresenta un punto di tangenza, quello tra esteriorità e interiorità, tra il mostrarsi della creatura e il suo mistero nascosto; il volto è il “luogo geometrico della personalità intima” (Simmel). Le forme generate da Nanni Valentini sono figure di quella origine a cui egli anelava, un’origine che è ripetizione e movimento continuo – “Il movimento sta alla base di ogni divenire” (Klee). I suoi stupendi disegni, come le sculture in terra, portano il segno dell’inesauribile muoversi della materia. La generazione delle forme consiste proprio nella ripetizione, che è gesto cosmico per eccellenza. La potenza delle sue opere non risiede mai nella forma realizzata, ma nella rivelazione di quelle potenze seminali.
La sua scomparsa ha fermato un lavoro ancora gravido di opere future, tuttavia la-forza-a-venire è già tutta inscritta nelle sculture che ci ha lasciato. La sua ricerca aveva infatti raggiunto da qualche tempo una completezza di concezione e di esecuzione che consisteva proprio nella rivelazione del movimento del divenire – “Sulla terra, l’inattività è il momentaneo arresto della materia: considerare tale arresto primario è un errore” (Klee). Uno dei temi prediletti da Valentini è stato quello della casa e dell’abitare. Cases si intitola il gruppo di ventiquattro sculture esposte a Barcellona nel 1984, e alla riflessione sull’abitare sono dedicati numerosi disegni e opere degli anni precedenti. L’abitare è il gesto proprio dell’uomo (Heidegger); è l’essere sulla terra come mortale; questo è il luogo della tangenza. Nell’opera di Nanni Valentini l’esistere è rappresentato da una linea che tocca in un solo punto la terra: “Ma è proprio questa dicotomia che mi interessa percorrere: l’aspetto in cui l’immagine diventa la rappresentazione di uno iato, di una tangenza. Il neonato, posato sulla terra, negli Abruzzi, non è solo un rito della terra-madre, ma il punto di questa tangenza, l’irrisoluto, l’indefinito e, in quanto tale, può diventare il mito dell’inafferrabile…” (Deriva).
Sulla terra è posto l’uomo, e “Mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire significa essere capace della morte ‘in quanto’ morte. Solo l’uomo muore e muore continuamente fino a che rimane sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai divini” (Heidegger). L’attenzione di Valentini al tema della dimora e dell’abi­tare muove da questo nucleo tematico, filtrato attraverso la “rèverie” di Bachelard e la dedizione all’elemento materico. Abitare significa sia coltivare che custodire la crescita, e il verbo creare ha la stessa radice di crescere. L’albero, la casa, la pianta, il seme sono motivi della terra, segni della sua manifestazione.
L’arte di Nanni Valentini sa tutto questo, perché conosce la radice dell’esistere: la nostra mortalità; egli l’ha continuamente ripensata attraverso la sua pittura, attraverso i vortici, gli abissi magmatici, l’ombra degli angeli e i colori delle terre. È per questa ragione che nella sua opera è depositato il segno di qualcosa insieme ignoto e conosciuto, segreto e risaputo. L’origine agognata dall’artista è sempre a portata di mano, ma è sempre inaccessibile; sta sul fondo dell’essere, ne è il fondo stesso; è il segreto geloso di ogni nascita ma anche di ogni morte.
Intorno alle sculture di Nanni Valentini si stende un silenzio che non è dato di trovare altrove, un silenzio consapevolmente scelto e di cui egli aveva scritto: “Il pensiero che sottintende il mio lavoro mi fa credere che anche il vuoto, come il silenzio, non possa fare a meno del proprio oggetto anche se questo è all’infinito e che l’arte come la poesia sia un cosmo dove l’archeologia è senza memoria e dove le cose disperdono i significati, e il senso non è trasparente”.

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