Norio Shibata mi raccontò… 

In catalogo “artis lingua, Quaderni di storia dell’arte”, Centro Immagini Koh-i-noor, Milano 1985.

Norio Shibata mi raccontò una vecchia storia giapponese, tuttora rintracciabile,
dove si narra come da una terra arida, sabbiosa, piena di sassi e percorsa
da antiche radici, una comunità foggiò stoviglie e vasi per la propria sopravvivenza.
Su un pendio scavarono delle grandi concavità unite tra loro come gli scalini di
una scala. Nella concavità più alta deposero una particolare terra; dei buchi
servivano a travasare in quella contigua tutto ciò che la pioggia poteva sciogliere,
lasciando sul fondo le parti più pesanti (sabbia, sassi, eccetera).
L’acqua limacciosa lasciava nuovamente posare, nella seconda conca,
le parti più pesanti che servivano poi per far mattoni.  Nella terza si travasava
la parte più liquida e qui si attendeva che l’acqua evaporasse.
Questo processo durava circa due o tre stagioni.
Quando l’acqua era quasi evaporata, la terra veniva raccolta, impastata
e riposta in un luogo chiuso e umido. Ogni anno veniva ripresa e impastata
di nuovo, così per molti anni, finchè veniva giudicata pronta per foggiare vasi
e contenitori per frumento, olio eccetera.
Si dice che tali oggetti fossero usati per imprigionare il vento e per sentire
le risonanze della voce.
Bachelard ci dice che nella fiamma di una candela abita la verticalità. 
A me piace pensare che nella terra abita l’anima del luogo.  Perciò,
un’anima per ogni luogo.
Quest’anima che partecipa alla stessa verticalità della fiamma,
ma trova la propria trascendenza nel senso opposto a quella.
Infatti quegli abitanti sapevano che nel luogo vicino forse c’era della terra
già pronta per essere lavorata, o quanto meno non era così “ostile”,
ma sapevano anche che l’anima del luogo non si può, come invece accade
con le parole, trasportare.  E’ come una pianta con la sola radice.
Vado spesso nei campi a raccogliere zolle di terra per ripercorrere quel rito laico,
ma gli impasti che faccio, le argille che uso, partecipano di quella tecnologia
nata dall’antico sacrilegio.  L’ombelico della luna è ancora sotto il ponte.
Quando lavoro cerco di mettere la terra tra me e lo sguardo: ma il senso
si ritrae ugualmente e il premere si identifica con il sognare. Trovo sentimentale,
cioè privo di sentimento, assumere le figure della “tradizione” come portatrici
di valore, perché la terra è sempre indifferenza, è quel nascondimento
di cui parlò Norio, è l’interrogazione che va al vuoto, a un supporto senza storia. 
Della terra c’è solo la sensazione che esiste nel nostro inconscio come grande memoria.
Ma all’arte, anche quella fatta con la terra, non si addice più il centro
gravitazionale dei valori, né tanto meno si può parlare ancora dell’arte
come sintomo della dispersione, della crisi del centro; ma anche l’arte
fatta con la terracotta può raccontarci l’apparizione di luoghi, la presenza,
anche lontana, di fantasmi abbandonati, di volti muti, di spessori non riflettenti,
di percorsi meno attesi.  Indizi, frammenti, ma certamente desiderio di uscire di nuovo dalla metafora.

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