Annunciazione, Dialogo, Deriva. Tre lavori di Nanni Valentini
in “Nanni Valentini”, catalogo della mostra, Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 19 gennaio / 20 febbraio 1984
Non so ancora, al momento di iniziare questo scritto che dovrebbe servirle di commento, come sarà la mostra che Nanni Valentini sta preparando con tanta intensa, affondata concentrazione; non conosco l’assetto compiuto delle nuove forme a cui sta lavorando: solo, nelle due visite allo studio di Arcore, ho potuto saggiare una temperatura e cogliere sparsi nella stanza splendidi frammenti di un’opera in divenire, fraseggi colmi di promesse di una partitura incompleta che dimorava ancora nella mente e nel cuore del suo autore.
Pur tuttavia mi provo a scrivere, eludendo l’obbligo primo che ha la critica di parlare in presenza dell’opera e di quella soltanto; dunque tentando di risarcire, con quella facoltà di previsione che si istruisce alla frequentazione della storia trascorsa di un artista, le lacune, i vuoti, le assenze che tengono ancora diviso ciò che presto sarà congiunto, le anatomie di un corpo, i segni di un paesaggio, le stazioni di un racconto che si comporranno nell’assetto raggiunto dell’espressione, soltanto nelle sale del Padiglione d’arte contemporanea, il giorno della inaugurazione. Solo allora si potrà vedere cosa è uscito dalla fornace di Valentini e aggiungere a questi preliminari il capitolo essenziale: l’articolo in cui, tenendosi a quanto si darà a vedere, sia possibile infine avvicinare ciò che si nasconde.
Ma in questo intervallo che la scrittura è forzata a colmare, nell’improbabilità di un parlare critico che attende di conoscere il proprio oggetto si nasconde una sottile giustificazione.
Ciò che infatti Valentini viene a chiedere all’esegeta è una sorta di complicità che, inducendolo ad arrischiarsi su un terreno che gli è incognito, lo spinga a intravedere quello dell’autore, gli permetta di accostare le modalità più costitutive del suo operare, i tempi tecnici, i luoghi immaginativi familiari alla sua pratica; perché quell’attesa, che il critico è costretto a misurare con il metro sfuggente della previsione, si riflette nell’analoga aspettativa vissuta dall’artista allorché l’opera, negli indugi che il fuoco la compia, è sottratta allo sguardo dell’artista, lungo una pausa che anziché essere inerte e neutrale, è colma di eventi immaginativi; come ogni intervallo che induca, nell’attesa, ad accomunare memoria e previsione.
Questa tipicità dell’operare di uno scultore che, come Valentini, realizzi con il mezzo della ceramica non è infatti una condizione puramente strumentale, un semplice condizionamento della tecnica, ma qualcosa di più sostanziale, seppure con la tecnica, profondamente, intimamente implicato; è una modalità o, meglio, un insieme di modalità che strutturano i percorsi dell’immaginazione, ne scandiscano i tempi, ne definiscono le tappe evolutive, agendo in conseguenza alla radice dei processi formativi delle immagini.
Nel passaggio dal crudo a cotto, la terra cambia sembiante e l’opera si trasforma lontano dallo sguardo del suo artefice, al di fuori delle sue possibilità di intervento; ma per tutto il tempo in cui il fuoco lavora le forme, la stanza dell’artista resta aperta ai venti dell’immaginazione e alle imprevedibili direzioni che il loro ingresso può imprimere al pensiero della scultura.
Se non si coglie il valore di questa incrinatura che si intromette nel fare e la profonda corrispondenza che si instaura tra le trasformazioni che avvengono nel forno e quelle che, contemporaneamente, maturano nell’athanor ideativo dello scultore, rischia allora di sfuggire all’interpretazione tanta parte del significato dell’opera di Valentini e, in primo luogo, il senso della sua iterata insistenza sul frammento, che si configura come una fenomenologia prepotente della ricerca, quanto bisognosa di ulteriori chiarimenti. Perché, a ben vedere, il ricorso alla presentazione del frammento non risponde, nell’opera di Valentini, neppure in minima parte alla suggestione del richiamo dell’incompiuto, distante come è dalle polarità estreme in cui si iscrive – tra certezza del primato dell’idea e rammarico della perdita della totalità – ogni poetica che vi faccia appello; è piuttosto, il frammento, l’apparizione in cui si concreta il prolungamento dell’immaginazione nei tempi pausati dall’esecuzione, è la presenza, il creato che via via, nel corso del processo operativo tiene il luogo della scomparsa dell’opera dall’orizzonte percettivo dell’artista; è la forma di un desiderio, di un’attesa, il testimone dell’inarrestabilità del movimento del pensiero.
Anche le stratificazioni, così ricorrenti nella scultura di Valentini: quel sovrapporre pelle a pelle, superficie a superficie fino a trovare il volume, che risalta come uno dei procedimenti più originali tra quanti mette in opera l’autore; anche le stratificazioni trovano in questa immaginazione materiale della ceramica, nelle modalità di un pensare dentro la tecnica una spiegazione non univoca e tuttavia ben aderente e rivelatrice; poi che anche questo processo di riformulazione delle preesistenze figurali racconta di uno stacco temporale e, per quel tramite, di una progressione immaginativa scandita dagli interventi del fuoco. Una conferma che quanto fin qui argomentato non si discosta più che tanto dall’ipotesi di una corretta lettura la si può allora reperire in quello che con tutta probabilità si configura come il centro motore dell’ispirazione di Valentini: in quel suo inesausto scrutare le possibilità espressive della terra, in quel suo paziente e progrediente indagare i dati costitutivi dell’esperienza ceramica, in quel suo immergersi, immedesimarsi nell’intelligenza della materia che rappresentano altrettanti indizi di una volontà formale interamente implicata nelle ragioni del mestiere e da quelle intimamente giustificata. La proliferante, variegata analitica che Valentini ha sviluppato nel corso degli anni settanta, tanto lontana – seppure bene informata – dall’algida determinazione programmatica perseguita da gran parte dell’esperienza del trascorso decennio, quanto capace di veicolare una ricchezza di significati e una densità di senso che hanno poche possibilità di riscontro nella scultura contemporanea: tale analitica è stata il risultato di un’adesione così totale all’individua specificità del mezzo da ricondurre costantemente all’interno di essa le possibilità immaginative dello scultore.
Gualdoni ha sottolineato in più di un’occasione questa peculiarità della ricerca di Valentini e non c’è che da rileggerlo quando scrive che: “più che concepire la materia, per Valentini si tratta di conoscerla con amore e umiltà, sollecitarla a formarsi piuttosto di formarla: lungi da accezioni come il plasmare (che presuppone la volontà e l’atto della organizzazione dall’esterno), l’artista assume i caratteri specifici della terra come elementi specifici già dati, dei quali si tratta di verificare e mettere in luce le intime possibilità di associazione e articolazione, alla ricerca di quel dato ultimo e ineffabile che è la sostanza della materia”; parole che trovano riscontro in questa riflessione fermata qualche anno fa da Valentini:
“[…] sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre, luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili che cerchiamo sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, tra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codice, preservati dall’anima del tempo, con tutti i successivi segni”.
È dunque a questo serbatoio di segni racchiuso nella terra che si indirizza l’analisi di Valentini, è nel labirinto delle loro relazioni che egli fruga con mani di maieuta ed è qui che alfine egli rintraccia nelle fenomenologie primarie della materia ma oltre esse, la simbolica densa e palpitante che ne conserva la sconfinata memoria culturale.
Così il materiale terra finisce con l’assumere il ruolo di una vera e propria struttura dell’ immaginario e il suo patrimonio simbolico la funzione di una inesauribile sorgente generatrice di forme e creatrice di immagini.
In virtù di questo dinamismo creatore che sottende i moventi esecutivi non vi è traccia alcuna, nell’opera di Valentini, di un progetto di iconografia, di un programma di immagine, vale a dire, che preceda le possibilità d’invenzione insite nella materia espressiva. Il che in sostanza sta a significare che, qualunque suggestione, impulso, stimolo ideativo Valentini abbia a raccogliere nel corso del tempo (e tanti certamente deve afferrarne l’osservatorio di una sensibilità così eccitata), soltanto possa venir riconosciuto e, di qui, tradotto in opera quello che già si riveli implicato con le ragioni formali del mezzo: le sue proprie e quelle che la tradizione e l’esperienza passata dell’artista hanno condensato. Ecco alfine ciò che fonda la continuità del mondo ideativo di Valentini, quell’interna coerenza che, di qui a poco, si darà nuovamente a vedere: l’Annunciazione, il Dialogo, la Deriva, allora…